Finora Jon Hopkins si è mosso quasi sempre dietro le quinte: è vero, ha pubblicato dei dischi da solista senza guadagnare però le luci della ribalta, mentre ha prestato le sue doti un po’ qua (lo troviamo in “Small Craft on a Milk Sea” di sua maestà Brian Eno, suo autentico pigmalione, così come al lavoro con i Massive Attack) un po’ là (compare anche lui fra i credits di “Viva La Vida”) (si, il quarto album dei Coldplay). Chiudiamola qui con le digressioni, utili solo a congetturare che se Brian Eno ha visto qualcosa nel ragazzo, qualcosa c’è.
“Qualcosa” ovviamente c’è, per la vecchia chioma del vecchio Brian se c’è. “Immunity” è ad ora il vero album prodigio dell’elettronica 2013. Muovendosi con una destrezza e un’eleganza francamente disarmanti fra techno, minimal, ambient e glitch, Hopkins si dimostra artigiano certosino nel costruire un’opera dal non così scontato (quando si parla di album di questo genere) merito di tenere desta l’attenzione e in costante palpito il muscolo cardiaco per tutti i 60 minuti (tutti necessari e non uno di troppo) di durata. Praticamente bipartito, “Immunity” regala scariche di adrenalina comete in caduta libera verso l’atmosfera, (“We Disappear”), progressioni da rally alla luce dei neon (“Open Eye Signal”), sogni torbidi (“Collider”, ovvero come suonerebbe un Burial che decide di dopare sè e la sua attrezzatura) e ricordi ad un tempo concilianti e disturbanti (“Breathe This Air”) con un 4/4 pressochè fisso nella prima tranche, per poi cambiare radicalmente registro nel resto della tracklist a beneficio di levitazioni ambient scandite da un piano lenitivo che tradisce una qualche sicura parentela con il Trent Reznor colonnasonorista di “The Social Network” (“Abandon Window”, “Sun Harmonics”).
Trattasi dell’album perfetto in cui la techno non gela, non mette distanze, non si riduce a puro maniacalismo tecnico ma letteralmente scalda, emoziona, scuote. L’album elettronico del 2012 era stato quel “Luxury Problems” a firma Andy Stott, che riusciva a risultare perfino “cantautorale” (mi si passi il termine) e confidenziale pur vivendo del – o forse proprio grazie al – contrasto fra terra (i bassi scurissimi) e cielo (la voce angelica della Skidmore). Qui invece voce non ce n’è (eccezion fatta per qualche linea melodica in “Collider”), ma quella confidenzialità , quell’accoramento – quella drammaticità , mi viene da dire, sono ben presenti, seppur in un’atmosfera di fondo molto più normalizzata e serena (la già citata “Sun Harmonics”, dodici struggenti minuti e desiderarne altrettanti).
Non voglio gridare al miracolo, ma lo farò. C’è davvero poco da dire e molto da ascoltare, e per molto: “Immunity” è un disco – ci scommettiamo – longevo, di una raffinatezza fuori dal comune e immediatamente fruibile anche dai non avvezzi al genere. Un capolavoro a tratti commovente.
Credit Foto: Steve Gullick