Mentre percorro i tornanti per arrivare a Castelbuono (Pa) mastico ostinatamente un chewing-gum nel tentativo di tenere a bada il panino che ho mangiato a pranzo sulla spiaggia di Cefalù. Ecco che arriva il ricordo: quando ero piccolo, durante le vacanze di Natale, andavo a Castelbuono con i miei genitori per comprare il panettone della pasticceria Fiasconaro. I tornanti sono uguali, la mia nausea pure, i panettoni di Fiasconaro vengono esportati anche nel “continente” (dalla Calabria in su, nella geografia di ogni siciliano), la novità è che a Castelbuono organizzano un piccolo festival che è un gioiello nel panorama desolato e desolante dei festival musicali estivi italiani. Quest’ultimo mi sembra un motivo più che valido per sfidare la nausea e raggiungere il piccolo borgo nel Parco delle Madonie. Sì, ci sarebbe il panettone di Fiasconaro, ma credevo ingenuamente di essere “fuori stagione”: solo più tardi avrei scoperto che di fronte alla pasticceria della mia infanzia sarebbero stati offerti pezzi di quella soffice meraviglia costellata di canditi, nonostante siamo ad agosto.
La mia ingenuità , accompagnata questa volta da una buona dose di pregiudizi, torna a manifestarsi poco dopo, quando devo parcheggiare la mia Panda. Immaginavo confusione, clacson, imprecazioni a denti stretti, automobili parcheggiate in modo artistico sui marciapiedi e sulle aiuole, e, soprattutto, orde di parcheggiatori abusivi che mi sarebbero venuti incontro come gli zombie di The Walking Dead. Le vie di accesso al paese sono tranquille e ordinate. Lascio la mia Panda in un piccolo slargo e, non appena spengo il motore, mi abbasso e cerco il fucile a pompa sotto al sedile. Per oggi risparmierò sulle munizioni: nessuno zombie/parcheggiatore abusivo all’orizzonte. In meno di cinque minuti sono nel centro storico di Castelbuono: è tutto così bello che, quasi quasi, mi commuovo. Si respira un’atmosfera rilassata, gli abitanti del paese sembrano ben disposti nei confronti dell’invasione di appassionati che occupa il loro piccolo borgo per tre giorni. D’altronde è chiaro anche a loro quanto sia importante quest’evento per l’economia cittadina. Mentre aspetto l’apertura dell’area del main stage (sfido io a trovare una cornice più suggestiva di piazza Castello), faccio un giro per il paese e prendo un caffè. Per le vie del centro storico vedo hipster annoiati che per ingannare il tempo armeggiano sui loro smartphone e gruppi di anziani che si godono il fresco del tramonto e giocano a carte. In un contesto che non sia l’Ypsigrock, questi due mondi colliderebbero inesorabilmente, ma a Castelbuono avviene il miracolo: convivenza pacifica, tra un sorriso e una mazurka che un complessino suona in un circolo ricreativo sulla via principale. Niente sguardi torvi e diffidenti.
I Metz mi prendono in contropiede e attaccano mentre sono ancora in coda all’ingresso di piazza Castello. Contropiede, sì. Calcisticamente parlando, i Metz sono come le squadre di Zeman: votati all’attacco, aggressivi, non si risparmiano e danno l’anima, con una performance molto fisica, che corre sul filo dell’autolesionismo, tutta sudore, urla e chitarre abrasive. Il trio canadese ha pubblicato un anno fa l’omonimo album d’esordio per Sub Pop (un nome garanzia di qualità ). Sul disco le chitarre sono taglienti come i coltelli di Chef Tony, ma dal vivo diventano lamiere arrugginite, potenti, rumorose come la vecchia Renault 5 di mio zio. “Get off” è un pezzo irresistibile che avrebbe fatto pogare anche il vecchio caro Christopher Reeve. A pochi metri da me c’è un signore sulla quarantina che tiene in braccio il figlio di cinque anni scarsi che fa headbanging sullo sferragliare di “Headache”: mentre li guardo, padre e figlio, penso che c’è una speranza anche per questo mondo, se un genitore porta il suo pargolo all’Ypsigrock e, per di più, lo fa assistere al concerto dei Metz. Il tridente canadese che piacerebbe anche a Zeman ci mette l’anima e non tradisce le aspettative: la chiusura con Wet blanket fa scatenare un pogo da manuale. Padre e figlio sono ancora lì, a qualche metro da me. Il rumore è il migliore antidoto per sopravvivere nel nostro mondo del cicaleccio ininterrotto e caotico, è meglio impararlo sin da piccoli.
Le operazioni di preparazione del palco per l’artista successivo, il francese Rover, avvengono sulle note di una new wave tirata, adrenalinica e anfetaminica. Li conosco: i Soviet Soviet, paladini pesaresi di un suono che con l’Italia ha poco a che fare (il giorno dopo riceverò conferma dalla band che il disco in questione era il loro nuovo album in uscita in autunno). Anche per questa scelta, l’Ypsigrock guadagna punti (e rispetto e amore) nella mia personale classifica di concerti e festival.
Non appena Timothèe Règnier, colui che si cela dietro il moniker Rover, mette piede sul palco, si percepisce un cambiamento di atmosfera. Se con i Metz il sapore era quello del sangue e della ruggine, all’insegna di un concerto selvaggio e senza controllo, il rosso francese porta in piazza Castello il suo charme transalpino, con un approccio più controllato ma non per questo freddo. I pezzi di Rover vanno giù come un buon whisky, riscaldano e inebriano. Durante “Wedding Bells” sento una voce femminile pronunciare questa sentenza: “un po’ Pink Floyd“. Io guardo meglio verso il palco e l’unica frase che mi esce dalle labbra in un sussurro è: “un po’ Gèrard Depardieu“. Inutile cercare i padri musicali di Rover, gli echi e le influenze, sezionare le sue canzoni per scoprire a quali pezzi del passato somiglino: Rover è se stesso, è figlio della nostra contemporaneità che ha masticato la storia e l’ha digerita e metabolizzata. Rover ha una voce potente, può passare dal falsetto al suo opposto senza alcun timore, con una facilità e una qualità assolute. “Queen of the fool” dipinge nella mia mente due immagini di segno opposto: un addio in aeroporto, carico di malinconia, e una scena di un film erotico degli anni ’70, tutta sensualità e desiderio. Pur di non incappare in qualche ricordo scomodo, scelgo di approfondire quest’ultima immagine e lascio che la voce calda di Rover mi accompagni in questo sogno erotico a occhi aperti. Timothèe/Gèrard si congeda da Castelbuono con un tocco di puro pop: “Remember” sembra una dissolvenza incrociata perfetta per l’ingresso dei Local Natives.
Con l’arrivo dei cinque losangelini c’è un nuovo cambio di atmosfera: dall’eleganza pop di Rover si passa al festoso carrozzone dei Local Natives. L’intreccio di voci, i falsetti e i controcanti non lasciano indifferenti, come l’energia messa sul palco dalla band. Neanche loro si risparmiano, l’aria di Castelbuono sembra rinvigorire i musicisti che transitano da piazza Castello: nessuno ha dato l’impressione di essere venuto qui a svolgere il compitino, tutti (sì, anche gli Editors che chiuderanno la serata) hanno lasciato il segno perchè sono saliti sul palco portandosi dietro quella passione che dovrebbe invadere ogni musicista quando prende in mano uno strumento. Le canzoni dei Local Natives sono caleidoscopiche, evadono da ogni gabbia che gli si vorrebbe imporre etichettandole con un genere. Quella patina di allegria che le riveste sembra infrangersi al contatto con la sensibilità di ogni ascoltatore che affolla piazza Castello. “Airplanes” (pezzo del loro primo album “Gorilla manor”, 2009) parte con leggerezza, con le solite percussioni ben calibrate a dare una base solida alla canzone, fino a quando non arriva quel ritornello urlato a pieni polmoni, “I want you back”, che apre una breccia nel fortino in cui ognuno di noi custodisce le persone che non ci sono più, quelle che, per qualche motivo, sono andate via. Sono sensibile, più sensibile del solito, e non so se sia colpa dei Local Natives o della ragazza che ho accanto, dell’odore di salsedine della sua pelle, del suo fiato caldo che sa di frutti di bosco. Forse è proprio la combinazione di questi elementi a rendere speciale ogni canzone del quintetto americano. Breakers, con il coro del ritornello che si spinge oltre il rullante, è una lunga rincorsa verso la felicità . Taylor Rice, Ryan Hahn e Kelcey Ayer (chitarristi i primi due, tastierista l’ultimo) si scambiano gli strumenti, sono elettricità pura. A un gruppo così posso anche perdonare la banalità , da interazione forzata con il pubblico, riguardante il sole e la pizza: in questi casi sono le canzoni, più che le parole tra un pezzo e un altro, a stabilire un legame forte con gli ascoltatori.
è arrivato il momento del gran finale per l’edizione 2013 dell’Ypsigrock e tocca agli Editors chiudere le danze. Nonostante non sia la prima volta che assisto a un concerto della band di Birmingham, la curiosità è tanta per due motivi: la tenuta live del gruppo è tutta da verificare dopo l’abbandono del talentuoso chitarrista Chris Urbanowicz, e poi c’è il nuovo album “The weight of your love”, da molti visto come un passo indietro dopo le sperimentazioni synth di In this light and on this evening (2009). Non entrerò nel merito della diatriba sul nuovo album, attendo le nuove canzoni alla prova live, visto che i pezzi capaci di infiammare il pubblico non mancano nemmeno in questo nuovo disco. E la conferma arriva subito: dopo “Sugar” è la volta del primo singolo estratto da “The weight of your love”, quell’ “A ton of love” che avrà fatto storcere il naso a non pochi fan a causa del suo suono potente in stile U2, un suono rock da stadio fino ad ora estraneo agli Editors. Ecco, quei fan non avevano capito un cazzo: “A ton of love” farebbe saltare con le braccia al cielo anche il più pallido ed esangue ragazzino con la maglietta di “Unknown Pleasures” dei Joy Division. Tom Smith è in gran forma e la conferma arriva con quei “desire desire” tanto potenti che smuoverebbero anche le pietre del castello dei Ventimiglia che si trova proprio alla destra del palco. La scaletta è ben bilanciata e attinge a tutti gli album degli Editors, perfino a “The back room”, esordio fulminante che aveva fatto gridare al miracolo nel lontano 2005: sarebbe un delitto non suonare il trio delle meraviglie, “Munich”, “All sparks” e “Bullets”. Altra nota positiva del nuovo album è la trascinante Formaldehyde: durante la sua esecuzione compare tra il pubblico un mascherone come quelli che appaiono nel video ufficiale della canzone, lanciato in rete solo tre giorni prima. Tom Smith è tarantolato, è difficile non pensare alle movenze sul palco del compianto Ian Curtis.
Il finale è pirotecnico con “Papillon”, che trasforma piazza Castello in un grande dancefloor in cui tutti ballano, nessuno escluso: quando scorgo su un balcone una signora anziana che accenna passi di danza sul tappeto di synth di Tom Smith e soci, ho la conferma della potenza di questo festival, oltre che della bravura degli Editors (non solo nell’esecuzione dei pezzi, ma anche nell’organizzazione della scaletta: una chiusura così è perfetta).
Prima di lamentarmi dell’assenza di festival degni di nota in Italia, sognando la Spagna, la Germania e il Regno Unito, mi ricorderò di questo gioiello nel cuore della Sicilia, che non ha nulla da invidiare alle grandi rassegne europee. L’Ypsigrock è la prova che anche in Sicilia e in Italia si possono organizzare eventi di qualità , mettendoci passione e dedizione. Raggiungo la mia Panda fischiettando “Smokers outside the hospital door”. Ho visto un bambino punk scatenarsi tra le braccia di suo padre e una nonna new wave danzare alla finestra. Posso tornare a casa felice. Mentre metto in moto sento ancora l’odore di salsedine e di frutti di bosco. Sorrido alla ragazza seduta in macchina accanto a me. Sì, posso tornare a casa felice.