Prima di gettarmi sulla terza stagione di “Luther”, appena uscita in Inghilterra, ho preferito affrontare nuovamente la visione delle prime due: i motivi sono molteplici (ricordavo piuttosto bene il plot, ma tanti dettagli mi sfuggivano) ma principalmente credevo che la prepotente infatuazione vissuta all’epoca fosse col tempo scemata, anche a causa di una ricercata letterarietà che, una volta riassaporata più attentamente, temevo lasciasse il posto a un’involontaria banalità .
Se la serie d’esordio, datata primavera 2010, appare infatti meno solida rispetto alla prima volta con alcune evitabili cadute di stile all’interno di una altrimenti perfetta struttura thriller; la seconda stagione (2011) mantiene invece intatto il suo fascino, all’ingegnoso intrecciarsi delle trame si aggiunge una profondità intellettuale credibilissima con un paio di villains inediti, solidi e perfetti (i cui moventi si spostano dal pensiero socio-filosofico del cattivo ispirato a Spring-Heeled Jack all’inaspettata, e dunque ancor più crudele, ludicità dei due gemelli Kent).
La nuova stagione si apre giocando su alcuni stereotipi che hanno reso famosa la serie: la prima sequenza è degna di un film di Michael Bay e il rallenty dedicato alla camminata di Luther fa temere il peggio. Il format è lo stesso della seconda serie con quattro puntate e due casi principali, a cui si aggiunge la solita trama sulle vicende private/lavorative del Detective Capo John Luther: il primo cattivo richiama l’archetipo principale delle nostre paure più infantili (già evocato in precedenza ma mai mostrato) e Luther e la sua squadra dovranno indagare su una serie di casi irrisolti in passato per scoperchiare un vaso di squallida violenza di genere, mentre la seconda indagine riguarda un vigilante vendicativo e davvero pericoloso che minaccerà da vicino il nostro protagonista e altri personaggi (il sergente Justin Ripley e la nuova fiamma dello stesso Luther, interpretata dalla splendida Sienna Guillory).
Ecco, è nelle due puntate finali che la serie mostra tutte le sue debolezze: il cattivo è sì credibile e avvincente, ma è lo sviluppo della trama personale/lavorativa ad inanellare cadute di stile ed incongruenze. Senza troppi spoiler vi dirò che qualcuno di già conosciuto sta conducendo un’indagine sui metodi di John Luther, però quest’indagine prende una piega surreale, addirittura senza senso, con arresti immotivati e una conclusione superficiale e sbrigativa.
Delle tre stagioni fin qui realizzate quest’ultima pare mettere la parola fine alle vicende del peculiare poliziotto inglese John Luther: la seconda è certamente quella che riesce meglio a ibridare le velleità autoriali e il gusto thriller, ma anche le altre due sono ottime visioni in cui certe ingenuità e facilonerie passano in secondo piano grazie al delicato disegno dei personaggi (se la grandezza di Idris Elba già ci era nota, è da segnalare l’interpretazione e il bel sviluppo del personaggio di Dermot Crowley) e l’ottima regia.
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