Rimanere fedeli a se stessi è piuttosto inutile. Ci sono certe rigidità  che hanno senso solo entro un certo arco temporale, quello che chiamiamo la giovinezza o giù di lì ““ gli angoli possono essere acuti e resistenti, i no definitivi, le scelte creare dei bivi in cui davvero si creano le distanze. I bianchi e i neri sono senza possibilità  di diplomazia, si innalzano le barricate e meglio che scegli una posizione o ti troverai in una terra di nessuno, perchè l’appartenenza è tutto e tu sei in ritardo con le tue decisioni.

Se c’era una cosa che mi piaceva di Zola Jesus è che aveva una capacità  di definizione invidiabile: c’era qualcosa di integro in lei, di irriducibile; era tutto bianco o era tutto nero, ma sapevamo benissimo dove trovarla. D’altra parte se scegli il nome di Gesù hai bisogno di tutta la sicurezza del mondo per non apparire ridicola.
Fortunatamente la coerenza non è una questione di rigidità  e le barricate cadono sempre, nel bene e nel male, e ci si trova ““ passata l’età  tremenda della giovinezza ““ a poter fare a meno di certe parti di sè che sono solo datate e hanno perso il loro senso: si abbassano le difese perchè non c’è più bisogno di corazzarsi per evitare di cadere in pezzi; diventa tutto meno stancante (così mi hanno detto). Tutto questo per dire che il problema di “Versions”, questa versione arrangiata da JG Thirlwell di pezzi di Zola Jesus che già  conosciamo, non sta nel suo essere in parte diversa (ma poi mica tanto) dalle prove precedenti della cantante. Nessuno scandalo, nessuna rivendicazione da “stavamo meglio prima” (quando?). Il problema, il motivo per cui possiamo ignorare questo disco (niente di peggio del silenzio all’uscita, delle mancate reazioni), è che il suo non è un cammino, il suo non è trasformarsi, spogliarsi dell’eccesso, il suo è un illanguidimento che forse non ci interessa neanche più.

I pezzi non sono davvero poi così lontani dalle versioni originali, ma c’è qualcosa che è stato portato via ed era tutto quello per cui potevamo sentire ancora una volta quelle canzoni senza che perdessero la tenuta. Elimina, pulisce, cancella i picchi ““ le versioni riarrangiate sono solo una versione levigata e meno interessante di quello che avevamo già  la possibilità  di ascoltare, tanto che, forse, se questo disco non fosse uscito non ne avremmo sentito la mancanza. è piacevole sì, ma è come ascoltare qualcosa che ricordiamo e che ricordiamo leggermente diverso. E per diverso intendiamo migliore; come una versione troppo smussata di noi, da cui abbiamo eliminato tutti i lati spiacevoli, ma che ci lascia senza tratti distintivi, senza lineamenti. “Stridulum II” è un disco che a distanza di anni mi cattura ancora, “Conatus” ha una qualità  personale che non troviamo altrove. Qui cosa c’è? Non molto, versioni perfette e riutilizzabili praticamente ovunque.

Quando ho sentito uno dei suoi pezzi utilizzato come colonna sonora di un momento qualsiasi di Grey’s Anatomy (ne ho già  parlato, ma non è un problema) non mi sono meravigliata più di tanto: il trattamento Shonda Rhimes dei pezzi, per cui tutto è drammatico e ricattatorio e straziante senza un motivo valido, funzionava benissimo anche per chi, come Zola Jesus, sembrava inattaccabile. Si poteva tradurre tutto nel linguaggio dei cuori sanguinanti (è amore, è un tavolo operatorio, è uguale) e non c’era scandalo; il che ““ credo ““ forse non ce lo aspettavamo già  a questa altezza per questa cantante.
Tutto finisce per parlare di una notte piovosa in un reparto del Seattle Grace e forse è sbagliato rimpiangere la Zola Jesus corazzata e intoccabile, perchè ha il diritto di essere e di suonare quello che vuole, di essere tutte le versioni di sè che le corrispondono senza che qualcuno invochi una coerenza che non esiste, ha il diritto di chiedersi se è proprio necessario essere in guerra perenne, se essere stremati è l’unico modo per dire qualcosa di valido. Però a noi forse non interessano le risposte, se sono solo queste.