“Gentle Spirit” ci aveva dettato una linea tutto sommato sul semplice e sulla volontà di rimanere incollato sin dal primo istante, ma ora il nuovo disco Fanfare del cantautore musicista Jonathan Wilson è di tutt’altra tempra.
Leggermente più “snob” se per snob intendiamo dire più incentrato sulla scrittura che su l’emozione pret à porter, questa può essere l’accezione precisa per inscatolare questo disco che dalla sua ha la dotazione univoca di un prezioso di stili che innalzano l’arte di questo giovane “capellone”, e che ne tira fuori le caratteristiche, le virtù e non ultima, la sua necessità di frequentare i grandi palchi del mainstream.
Forse una bulumia di musiche e timbri da l’idea di una soffocazione d’ascolto, una tracklist farcita a dovere da chitarre, solfeggi latin, psichedelie a josa, folk pop a scaffali, armonici ambientali e dreaming q.b., ma a tutto ci si fa prima o poi l’abitudine e onestamente questa ricco menù di atmosfere poi finisce per coccolare chiunque e comincia a fare i “grattini con le fusa” come un gattone peloso sulle ginocchia in un sera d’autunno; tredici tracce dall’indubbio valore e con tanti santi in paradiso che partecipano all’esecuzione del tutto, da Patt Sansone dei Wilco a Mike Campbell e Benmont Tenche degli Heartbreakers di Petti, da Crosby & Nash a Roy Harper, Jackson Browne, giusto per citarne alcuni, e quello che poi si viene ad ascoltare è una piccola meraviglia sospesa tra passato ed una certa innovazione d’animo.
Ovviamente siamo alla larga da rivoluzioni totali o grandi manovre, un disco di quei “tranquilli” che tiene compagnia e si ama fino alle sue inestricabili storie wilderness o di amori di confine, tracce che celebrano l’intimità e una solitudine che potrebbero tagliarsi col coltello in certi momenti, ma pure una tracklist sorniona e calda come una trapunta ideale per il tempo a cui si va incontro; punti forza e cardini del registrato si trovano nelle evoluzioni pindariche e arieggiate di “Dear Friend”, negli ipnotismi West Coast “Cecil Taylor”, “Desert trip”, tra un pensiero Dylaniano “Love To Love” e una graffiata elettrica alla Young “Illumination”, o, se si amano le sensazioni di una fresca bibenda alla metedrina, farsi sopraffare dalle nuvolaglie beat/freak che “New Mexico” sparge come incenso al vetiver con tanto di svolazzo di flauto traverso e svisi Santaniani come nelle migliori tradizioni drogate Sixsteen.
L’alternanza di buono e sospeso tra futuro e passato continua per tutta la durata del disco, e Wilson si fa sempre più grande.
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