Facendosi testardamente strada nell’underground post-witch americano a testa bassa, al contempo scoprendosi musa e “modella”, la Wolfe si è costruita negli ultimi anni una fama di tutto rispetto, grazie a lavori come “The Grime And The Glow” e soprattutto “Apokalypsis”, gemma dal fuligginoso splendore che ponemmo a mo’ di sigillo sull’annata musicale 2011.
Tanta umiltà ma anche tanta ambizione nel percorso della chanteuse americana, che qui passa dal ruolo di strega urbana direttamente a quello di sacerdotessa, abbracciando una poesia che nel suo amaro disincanto mostra un’aura più “pop” del solito, dove per “pop” intendiamo non uno svilimento formale, quanto piuttosto una ricerca spasmodica di una dimensione peculiare e in qualche modo distante dai fumosi solchi tracciati nelle viscere delle tenebre da altri artisti darkoidi contemporane, anelando ad una “celestialità nera” mai così “accogliente” e romantica, nel senso -ovviamente- dannato del termine. Una poesia che si eleva dalla derelitta, urbana (o meglio ai confini dell’urbano) bruma lo-fi del passato per incontrare la terra, intesa come dimensione “folk” (intesa come landa polverosa, passaggio “selvatico” per ritrovare il sè oltre l’attuale, il moderno, il tecnologico) e così il sangue, all’origine di un legame, all’origine di una perdita, di una disarmonia, in nome di un nuova e diversa armonia, una nuova e diversa verità .
Sono diversi i sapori con cui la musicista tenta, riuscendovi pienamente, di ricreare di nuovo l’incanto: vi sono battiti futuristici e synth-etiche coltri post-umane (“Feral Love”, “The Warden”) che trascendono in goticheggianti affreschi di disperazione surrealista (“House of Metal”) o introspettività oltrecosmica (“Sick”), e pezzi più rugginosi e martellanti più vicini alla Chelsea precedente (“We Hit A Wall”, “Kings”, “Reins”, “Destruction Makes the World Burn Brighter”, in cui ritroviamo in parte le pose imbronciate di “The Whys”, l’epica e avvelenata “Ancestors, The Ancients”), sempre affrontati con eleganza ed estro, sfoggianti suoni stavolta più puliti e spesso contenenti interessanti variazioni ed evoluzioni tematiche, si veda ad esempio la rincorsa ultraterrena che squarcia “Reins” dopo un inizio più meditativo. Climax di bellezza accecante appaiono anche in brani da antologia come “They’ll Clap When You’re Gone” e “The Waves Have Come”, che insieme a “Lone” compongono un trittico finale più improntato su un folk decadente a base di chitarra, piano e archi, strumenti che dipingono scenari interiori spaccacuore tra funerea desolazione e fievole utopia.
“Pain is Beauty”, nonostante un titolo apparentemente ingenuo e come dire, forse troppo “diretto”, appare come un’opera sofisticata e parecchio stratificata, forse la più ammaliante e matura mai creata dalla Wolfe. D’altronde quella frase perentoria e apparentemente semplicistica in realtà esprime un intento, una ricerca e una visione precisi: una nuova forma di bellezza autarchica, oltre le Gibbons, le Jarboe, le Harvey, le Bozulich e le Plaschg, oltre il dolore e oltre l’amore, lì dove il rosso scende dalle labbra e si spande sui vestiti, il nero erompe dal buio e si imprime sulla bocca e il candore strappa il nero per graffiare il tormento alle unghie e le riveste di bianco per accarezzare la malinconia.
Credit Foto: Bill Crisafi