Nell’ambito di una farlocca antropologia musicale fai-da-te, mi piace credere che il recupero di sonorità  folk nell’ultimo decennio ““ da Sufjan Stevens a Bon Iver, dai Fleet Foxes a Radical Face ““ corrisponda a una certa esigenza di purezza di suoni, certo, ma soprattutto di idee, di sentimenti, che forse è materiale credibile solo nelle storie che cominciano con “C’era una volta…” e nei telefilm storici da educande della BBC. Sia chiaro, il passatismo non c’entra nulla con il debut album dei Mutual Benefit, “Love’s Crushing Diamond”, somma e prodotto di synth e artefici, polistrumentismo baroque folk e sospensioni ambiental di sapore Sigur Ròs. Eppure il risultato dell’evidente consapevolezza tecnica e compositiva di Jordan Lee, musicista girovago di Brooklyn, è appunto un’opera di bellissima ingenuità . Sarà  perchè Lee presenta il progetto come “the sound of everything making sense, if just for a second”. Sarà  perchè, nonostante in “C.L. Rosarian” canti it seems beauty isn’t hard to find / when you’re around to ease my troubled mind con una banalità  sconcertante, ti sembra che possa essere giusto così e, anzi, di non aver dopotutto avuto bisogno di altro che sentirti dire qualcosa di così elementare.

L’effetto finale può verosimilmente avere a che fare con la magia; e del resto Lee la inserisce come parola chiave anche nel manifesto della sua micro-etichetta Kassette Klub, con cui ha inizialmente distribuito la propria opera prima [la Kassette Klub crede nella collaborazione, nell’auto-espressione disinibita, nella musica come arte, nei gattini e nella magia]. Io, un po’ più cinicamente e allergica ai gattini, la direi questione simile all’inganno calmante degli antidolorifici. La potenza dei lenitivi. Così, “Golden Wake” (in the water I could see / a piece of what you broke in me) è il momento in cui smetti per un attimo di sentire dolore e allora dici “va bene comunque”, quando ormai è chiaro che l’accettazione passa attraverso una resa incondizionata e non ti sei salvato, no, ma c’è qualcosa di rassicurante persino nel carattere definitivo di una sconfitta. In “Love’s Crushing Diamond” l’auto-palingenesi parte da lì, continua su treni che attraversano il midwest (“Lets play/ Statue of a man”) e richiede un vocabolario semplice e violini, poca importa che siano autentici o sintetizzati.

L’ho chiamato “inganno” perchè la verità  è che bisogna essere bravi davvero per venirci a raccontare che l’amore frantuma i diamanti e non risultare stucchevoli come un cucchiaino di miele e zucchero. Ma Jordan Lee lo è (bravo davvero) e sembra crederci sinceramente che “non siamo fatti per avere paura”: e per sette tracce e trentadue minuti di estraneità  dal mondo, be’, lo facciamo anche noi.

Credit: Ebru Yildiz