Se decidi di chiamarti Zola Jesus, significa che, beh, stai facendo le cose sul serio. Scegliere Gesù Cristo e uno degli scrittori meno divertenti del mondo come santini non è esattamente una cosa così: la tua musica non vuole essere carina e divertente. Hai, quanto?, 20 anni ed è tutto importante. Un colore, una religione, le appartenenze sono una fede.
Quando ho recensito “Versions”, lo scorso anno, ho pensato a queste cose qui, a quanto Zola Jesus avesse una coerenza che io forse non avrei mai avuto, a come non fossi mai stata abbastanza settaria, pura e a come lei avesse scelto una parte della barricata e a come lo stesse facendo sempre meno. Pensavo a come la coerenza finisca per essere un ostacolo e al fatto che più vai avanti meno hai bisogno di essere una cosa sola, meno hai bisogno di metterti da una parte o dall’altra: puoi fare tutto, puoi ascoltare tutto. Il guilty pleasure è una cosa che ha senso se sei molto poco sicuro o se hai 15 anni e non puoi dire che il pop è divertente. Il fatto era che, però, quello di Zola Jesus all’epoca di “Versions” sembrava un illanguidimento (e lo era), una versione sentimentale di una cosa che sapeva fare meglio. La sua musica così hunting, freddissima e proveniente da un’altro universo era adesso una roba da telefilm ricattatori, da scene piene di pathos e sangue e sentimenti.
Nika Roza Danilova per “Taiga” ha detto di voler scrivere HUGE POP SONGS. Ha detto che si sarebbe messa a studiare Rihanna e nessuno ha fatto una piega – allora sei davvero cresciuta, se inizi a dire che ti piace Rihanna e nessuno trasale -, che poi alla fine la sua carriera andava vista così, come un alleggerimento, uno smussamento costante: il bianco totale dei primi dischi si è riempito di riflessi, di vita. Come la “Taiga”, che sembra un posto dove non cresce niente e invece è piena di vita, freddissima – come Zola Jesus, che si può definire glaciale – ma vibrante. Le luci su un muro bianco, i led che non riscaldano.
Di “Go (blank sea)” dice che assomiglia alla sensazione che provi uscendo da sola in mezzo alla folla di una città e questa cosa vale un po’ per tutto il disco: queste canzoni le puoi ballare in mezzo alle persone, senza toccare nessuno, assomigliano a una mattina in cui esci di casa e urti qualcuno sulla tua strada, alle carte della metropolitana passate sul lettore, alla bellezza scarna e spoglia, alle piastrelle bianche sui muri delle stazioni che diventano un set improvvisato per un video musicale. Come in “We found love” di Rihanna – che ha uno dei video più belli mai realizzati -, ma senza mai diventare sensuale: Zola Jesus si ferma sempre un po’ prima, dimentica che il pop è una questione di sesso, di desiderio e di corpo. Da qui vengono tutti i problemi di “Taiga”: perchè la sua voce è bella e “Hunger” sembra presa dalla pop chart migliore, ma non si traduce in niente di fisico, non c’è niente di queste canzoni che posso amare e toccare. “Dangerous days”, “Lawless”, queste potrebbero essere canzoni infuocate nelle mani di una come Rihanna, sono ingentilimenti, raffinatissime pop songs di chi sa come scriverle, ma che mancano il segno.
Un disco buono di una cantante in evoluzione, il prossimo ““ forse ““ metterà un punto alle metamorfosi della cantante che amava Gesù.
Credit: Press/Jeff Elstone