In che direzione si muove Andy Stott? Dopo “Luxury Problems” era inutile cercare di ripetere il capolavoro con gli stessi suoni. L’ascesi e la sporcizia del precedente lavoro rimangono punti fermi nella testa di chi ha l’intenzione di sondare gli spazi dell’elettronica, cercando di prevedere il futuro e le strade che verranno battute dal genere stesso. Manchester ad un certo punto è andata stretta ad un’artista che prima di tutto si comporta come una persona relativamente normale, senza il presenzialismo che affligge certi produttori.
Il titolo, “Faith In Strangers”, nasce da una riflessione personale del britannico sui cambiamenti causati da “Luxury Problems” nella sua vita. In una recente intervista ha spiegato: doing music full-time, and it went from going to the same place every day to work, seeing the same people, to every weekend, you fly into a different country, you’re meeting new people for the first time, like nearly every weekend. And it’s just like, these people… you’re sort of their responsibility. It’s weird. It’s like they’re complete strangers, you don’t know these people, but they’re there to make sure you have everything you need. That was the reason I named it that, because I have total faith in strangers doing what we do. Chiaramente una “fede” del genere lascia spazio a tantissime altre interpretazioni da porre in molteplici scenari.
Ad esempio qualcuno potrebbe affinare banali riflessioni sul multiculturalismo inglese, quelle cose che vanno tanto di moda nelle facoltà umanistiche italiane.
Ma ancora manca la risposta alla domanda iniziale. Il nuovo disco si apre con “Time Away”, la nebbia è fitta e lascia intravedere pochissimo dunque la navigazione è a (poca) vista. Un eufonio, simile ad una tromba ma appartenente alla famiglia degli ottoni, non è un classico strumento con il quale aprire le danze. Il loop si dilata districandosi nella coltre fumosa ed opaca.
Dov’è la techno? “Violence” fa entrare in scena la voce di Alison Skidmore ed il suo sussurro danza tra bassi infangati e rumori metallici abrasivi. Dalla parte opposta si trova la traccia che dà il nome al disco, c’è un filo che la collega alla violenza iniziale. La transizione è garantita da una linea di basso pop come non mai nella discografia di Andy Stott. Il battito cardiaco iniziale lascia campo ad una pianura abitata da sintetizzatori caldi che illuminano la scena. Dove sono i rave nelle periferie post industriali? Nel mezzo non li recuperate mai, techno e rave, allo stato puro. Tra la ruggine crescente ed il Museum of Science & Industry di Manchester ci sono nuovi sapori. “On Oath” ricorda l’esausta profondità raggiunta due anni fa, la voce si inabissa in un beat attutito ma comunque sferzante. I bassi del passato sono anestetizzati e ritornano in superficie spezzettati. “No Surrender” è la colonna sonora di un b-movie dove l’uomo cerca di raggiungere lo spazio ma fallisce miseramente la missione e ricade tra i sacchi della spazzatura, come il synth si smorza tra ronzii e martelli pneumatici in lontananza. “How It Was”, sentita dal vivo nelle ultime apparizioni di Andy Stott in Italia, fa ballare ““ finalmente diranno i più ansiosi ““ con un beat a metà tra acid ed industrial sghembo. “Damage” è la pesantezza e l’esperienza sensoriale che più estremizza l’andamento, mitragliando le orecchie dell’ascoltatore mentre un artigiano modella il ferro. Si chiude con “Missing” ed il ritmo scompare, l’anestetico è servito. Una culla non troppo rassicurante per ritrovarsi sospinti in un mondo parallelo dalle mezze frasi appena percepite, tra note sparute e stralunate.
Andy Stott hai vinto ancora, ben fatto.