#10) SBTRKT
Wonder Where We Land
[Young Turks]

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Un disco stupefacente se si pensa alla moltitudine di suoni che lo abita, e forse per questo molto disomogeneo. A SBTRKT il pregio di aver scelto ottime collaborazioni (Warpaint, Caroline Polachek, Sampha) e di aver cercato la contaminazione tra electro music, R&B, sci-fi e afrobeat. Un disco molto piacevole.

#9) GOAT
Commune

[Sub Pop]

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Vengono dalla Svezia i Goat, ma il loro sound non ha niente di nordico. Un’impresa se si pensa a come le alchimie orientali da desert rock (quasi da Tinariwen) siano state concepite all’interno di quel drone-rock tanto caro John Cale.

Ma non solo, c’è anche spazio per la psichedelica e la fusion. Un viaggio senza tempo animato da voci ancestrali.

#8) PROGETTO PANICO
Vivere Stanca

[Tirreno Dischi/Superdoggy]

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Punk, italiano e per giunta aggressivo. Critico, delirante e divertente nei testi, corre a ritmi incessanti senza pace. Li produce Karim Qqru (The Zen Circus) e ne ha ragione.

Il trio è una delle sorprese italiane più belle: una coesione cantautoriale da mettere al tappetto la nostra generazione pop da Colapesce, Lo Stato Sociale, Brunori SAS in poi.

#7) SAMARIS
Silkidrangar

[One Little Indian]

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Con ”Silkidrangar” i Samaris fanno il salto di qualità  in una delle band sicuramente più atipiche delle scena.

Un clarinetto a supporto della downtempo e della minimal con un stile tutt’altro che ripetitivo fuso in armonie gotiche di un’Islanda che si è fermata altrove. Coraggiosi.

#6) THE WAR ON DRUGS
Lost In The Dream

[Secretly Canadian]

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Per una nuova idea di folk, fluido e sognante. “Lost In Dream” è l’ideale per chi ama trascinarsi a divagazioni sonore sullo stile dello space rock, strizzando l’occhio anche a Tom Petty.

Al songwriting di Adam Granduciel, il merito di aver scritto una nuova pagina del folk americano.

#5) ST. VINCENT
St. Vincent

[Loma Vista/Republic]

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è l’anno della consacrazione: St. Vincent è un disco fondamentale, futurista, avant-pop, e tuttavia ancora legato alla versione più esplosiva dei Talking Heads.

Melodie elettroniche unite a distorsioni anche psichedeliche, una voce quasi lirica, pulita e organica, questo album mantiene una linearità  espressiva difficile da trovare. Molta consapevolezza.

#4) TINARIWEN
Emmaar

[Anti]

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Avete presente i tuareg del deserto? Bene, ora immaginateli accampati durante il tramonto mentre imbracciano chitarre e percussioni. Ma non basta. I Tinariwen non sono troppo etichettabili: la multiculturalità  il loro aspetto più efficacie.

Blues, danze orientali, mantra ossessivi e una disperata lotta contro la piaga della guerra. Un tappeto sonoro dove si viaggia sicuri.

#3) APPALOOSA
Trance 44

[Black Candy]

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Chemical Brothers, con riletture techno molto serrate e dinamiche.

“Trance44” è pura ipnosi giocata sui cambi di intensità  e di atmosfera. Una band da tenere d’occhio

#2) DAMON ALBARN
Everyday Robots

[Warner/XL]

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Servono altre parole per definirlo? Damon Albarn ha ristretto il campo d’azione estendendolo all’infinito: può fare qualsiasi cosa. Anche raccontarsi senza veli con il pop, concetto base di questo “Everyday Robots”.

Paure da solitudine postmoderna abitano i testi supportati da un forte tradizionalismo, gospel, trame elettroniche che riassumono la carriera con un’autobiografia sincera.

#1) CHET FAKER
Built On Glass

[Downtown/Fontana North]

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Al primo posto Chet Faker per aver rielaborato l’electro-soul con l’R&B, una sezione di fiati ben architettata e dato spazio ad ambienti hip-hop con una dinamica mai vista prima. Un album vellutato, meditativo, curato in ogni suo aspetto, un muro sonoro tracciato da un impianto vocale senza macchia.

Un jazz quasi futurista di cui ricordare la delicatezza e l’approccio quasi etereo.