Le reunion, specie quelle che accadono dopo vent’anni, si dividono in due tipi: quelle che sono una pallida imitazione del passato, giustificate da motivi economici o da patetici tentativi di mostrarsi ancora giovani, e quelle dove il gruppo ritorna più in forma di come l’avevamo lasciato. Non ero presente nel 1994 agli ultimi concerti degli Slowdive prima del lunghissimo iato conclusosi nel 2014 con una cinquantina di concerti in giro per il mondo, ma è chiaro che la loro reunion appartiene alla seconda categoria. Non solo l’hanno dichiarato loro stessi, ma è facile credere che oggi, a quarant’anni passati e forti di uno stato di “band di culto” acquisito quasi più in loro assenza, siano nella posizione migliore per suonare i capolavori shoegaze che scrissero poco più che ventenni all’inizio degli anni “’90, tra litigi con le case discografiche e mentre la critica gli voltava le spalle.

La prima data è a maggio in un piccolo locale di Londra, ma devo aspettare agosto per trovarmeli di fronte alla Route du Rock, Saint-Malo, Francia del nord. Affondando con le scarpe da ginnastica nel fango causato dal diluvio del giorno prima, poco prima del tramonto, è un’esperienza quasi mistica. Dietro di loro solo un’enorme, elegante scritta bianca su sfondo nero: “slowdive” è di nuovo un verbo coniugato al presente. Neil Halstead sulla sinistra con la folta barba che lo accompagna da anni è il più irriconoscibile rispetto alle foto degli esordi, Rachel Goswell all’estremo opposto del palco sembra a tratti invece proprio la ragazza di un tempo.

Slowdive live

Li ritrovo qualche mese dopo, dicembre, pochi giorni prima di Natale. Stavolta siamo al Kentish Town Forum di Londra, due date per circa 8000 paganti complessivi. Alle loro spalle decine di piccoli schermi che proiettano frammenti di loop astratti, evocativi. Sono tutti estremamente a loro agio: Neil che ritrova le distorsioni che aveva messo da parte nella sua recente carriera solista, Rachel con quei sorrisi disarmanti mentre accompagna con cori e tamburello o quando imbraccia la chitarra elettrica con delicatezza fuori dal comune. Nick che in assenza di concorrenti balla e gioca a fare il frontman col basso suonato all’altezza delle ginocchia come in un gruppo punk. Simon alla batteria e Christian alla seconda/terza chitarra elettrica che più nascosti dai riflettori sembrano parte vitale della band come e più degli altri.

La scaletta è quasi identica per tutto il tour: si inizia proprio con “Slowdive” ed “Avalyn”, dal loro primissimo EP, che probabilmente non erano mai suonate così efficaci come ora. Immancabili poi “Catch the Breeze” da “Just for a Day” e buona parte dei brani di “Souvlaki”: “Machine Gun”, “40 days”, la sempre attesissima “Alison” (“this is as pop as we get”, scherza Rachel per introdurla), “When the Sun Hits” che Neil a dicembre dedica a Nick Talbot, in arte Gravenhurst, da poco scomparso. Nella setlist più distesa del Forum c’è spazio anche per “Blue Skied an’ Clear” da “Pygmalion” e per una toccante versione acustica di “Dagger”. Il finale è affidato sempre a “Golden Hair”, cover di Syd Barrett su testo di James Joyce che avevano inciso nel 1991 e che ora hanno trasformato con una lunga coda strumentale, un crescendo al rallentatore che porta dal piano al fortissimo galleggiando nell’aria.

Il miracolo degli Slowdive dal vivo è questo: il muro di suono che creano riesce ad invertire la forza di gravità . Le immagini che mi porta alla mente sono quelle di “Interstellar” e ancora di più della Soyuz di Samantha Cristoforetti che effettua il lento, precisissimo docking alla Stazione Spaziale Internazionale. “Souvlaki Space Station” si intitola il loro brano del 2013, d’altronde, e allo stesso modo le chitarre di Neil Halstead e di Christian Nevill (nascosto ma essenziale sul lato destro del palco) viaggiano in uno spazio etereo, usano solo la forza matematicamente necessaria a mantenere il suono in perfetto equilibrio, equazione di rara bellezza come la voce esile di Rachel Goswell. Il motore che li porta in orbita è formato dal basso di Nick Chaplin e dalla batteria di Simon Scott, che per un istante mi sembra tramutarsi in Brian Cox, il fisico e conduttore televisivo britannico, mentre ci spiega che la velocità , nello spazio come nella musica, è relativa.

Sono ormai confermate le voci che gli Slowdive stiano lavorando a nuove canzoni, le prime da vent’anni, che vedranno probabilmente la luce nel 2015. Mentirei se non dicessi che non vedo l’ora di sentirle, ma allo stesso tempo penso che questa reunion sarebbe perfetta così, annunciata su internet a gennaio, proseguita con un lungo tour, finita con due concerti soldout a Londra il weekend prima di Natale. In un universo parallelo, forse, gli Slowdive sono ancora un gruppo di culto degli anni “’90 e il 2014, senza di loro, è stato un anno un po’ più triste.

Photo: Ralf Lotys (Sicherlich) / CC BY