Ready to fight, fight makes the stillness (“Bury our friends”)

Quando ho letto che le Sleater-Kinney stavano tornando con un nuovo album, ho fatto quello che fanno tutti in queste occasioni: ho ascoltato i loro vecchi dischi ““ che poi vecchi è l’ultima parola con cui li descriverei ““ mi sono guardata il mio film adolescenziale preferito, quello con le riot grrl e Julia Stiles, nella convinzione errata di ritrovarle in colonna sonora (erano le Bikini Kill, scusate). Se ci sono cose che sono felice di aver visto e ascoltato in un’età  che era buona per le boyband e la musica di cui poi ti vergogni, sono queste. Le Sleater-Kinney raccontano di aver deciso di tornare a suonare insieme mentre stavano guardando la televisione: le immagino, Corin Tucker, Carrie Brownstein e Janet Weiss, mentre si rendono conto che è passato abbastanza tempo perchè tutto questo (e questo sono tour, prove, prime e singoli, parla della stanchezza e di come puoi essere esausta e felice dopo un concerto) cominci a mancare così tanto che l’unica cosa che puoi dire è: rifacciamolo. “Only together ‘till we’ll make a move”, no? Certe cose non invecchiano, certe cose funzionano ancora, se hai qualcosa da dire (questo è il caso). Tornare insieme, anche se fosse per l’ultima volta: come cantano in “Fade”, If we are truly dancing our swansong, darling, shake it like never before.

è un disco ben prodotto, ha le canzoni, ha una qualità  musicale che ti dice che se le Sleater-Kinney sono state a margine della pista per qualche anno, sono ancora quelle da cui prenderete lezioni là  fuori: ha la qualità  pop di chi non deve dimostrare più molto, di chi si può permettere di dire I’m not the anthem, I once was the anthem con lo stesso piacere di chi dice “quando ero ragazza”.
Solo dieci pezzi, nessuna ballata: parla di lavoro, e quando intervistate queste donne raccontano di madri e della stanchezza e dei turni, in the market the kids are starving e così se parliamo di dischi politici, forse dovremmo pensare meno ai proclami e più a una storia di questo tipo. Parla di città  atomiche, del vuoto, di potere e d’amore: insomma, non è ci sia molto altro da raccontare, alla fine. è un disco urgente, è un disco di chi sa come si fa musica, di chi è stato e resta ““ non ne avevamo dubbio ““ uno dei migliori gruppi punk-rock. Sono storia, senza la noia del passato e delle aspettative: il prezzo è stato pagato, e non abbiamo bisogno di prove per credervi, l’intensità  ha smesso di essere un banco di prova. Quando eravamo ragazze.

I dischi con cui ritornano i gruppi assomigliano spesso alle serate commemorative, a un’epoca che in un modo o nell’altro è evaporata: voi pensate che non ci sia nessun problema a mettervi ancora quella felpa, ma nessuno là  fuori conosce tutti i vostri riferimenti. Questo, invece, è solo il disco di un gruppo che continua a suonare, si era solo preso una pausa. è vivo, pulsante, come potrebbe essere un disco di un gruppo che nasce oggi, ma con la consapevolezza di chi ha lavorato per anni: l’altro giorno, una scrittrice italiana scriveva aggiornare il proprio portfolio ti dà  la misura esatta di quanto cazzo ci sia voluto per arrivare fino a qua ““ qualcosa del genere: guardatele suonare al Letterman, non c’è bisogno di provarci di più, l’autorevolezza è un’altra cosa (e ti permette di indossare un completo bianco, se sei Carrie Brownstein). Lunga vita alle Sleater-Kinney, che non hanno bisogno che di sè per make me a headline / I wanna be that bold.

Credit Foto: Brigitte Sire