La sensazione, ascoltando le dieci tracce che compongono “Delta Sands”, è quella che si prova dopo aver guardato per la prima volta “Mulholland Drive” di David Lynch: una buona dose di fascinazione, un leggero senso di smarrimento, la consapevolezza di averci capito ben poco. Paragone troppo azzardato per un debut album? Certamente lo è. Eppure gli Opal Onyx, duo di Cleveland ora con base a Brooklin, sembrano ricreare perfettamente le atmosfere surreali e suggestive del Club Silencio tanto caro al regista di “Twin Peaks”. Sarah Nowicki a voce e chitarra, Matthew Robinson al violoncello (sì, proprio violoncello) e ai synth a profusione, per un risultato che è inaspettatamente armonia e mai tensione. “Listening to the hum of cars on a brigde”, ascoltare il ronzio delle auto sopra un ponte: questo si legge alla voce “influenze” sulla loro pagina Facebook, dove compaiono tra i riferimenti anche Swans, Biosphere, Tim Hecker, “luoghi che non esistono” e “assenza di fisicità “. E in “Delta Sands” c’è un po’ di tutto questo: spiritualità , compattezza, solennità , indefinitezza.
Pur con un taglio di capelli a caschetto un po’ old-fashioned e senza rossetto rosso, come appare nel video di “Personal”, primo estratto da “Delta Sands”, Sarah Nowicki sfodera una voce della stessa intensità della sempre impeccabile ed elegantissima Anna Calvi. “Black and crimson”, in apertura del disco, ha infatti una potenza disorientante pari a quella di “One breath”, l’ ultimo sorprendente lavoro dell’artista inglese. Con Anna Calvi la Nowicki però non condivide solo l’innegabile talento vocale, ma anche l’utilizzo della voce come se si trattasse in tutto e per tutto di uno strumento, forse proprio lo strumento per eccellenza. Così, in “Fruit of her loins” si fa eterea e spigolosa, si veste di toni dark e perfino gotici, rendendo l’atmosfera decisamente noir. In “Bright red canyons”, al contrario, smette i panni della doom lady e si fa più morbida, senza mai però diventare accomodante, e quando sul finale intona “please to meet you, my dear child” sembra quasi di trovarsi di fronte all’ipnotica Beth Gibbons e ai suoi Portishead. Ma è quando l’atmosfera si fa più disturbante e claustrofobica, con annessi rumori e sperimentalismi a go-go (vedi la splendida “Eviaun”, forse l’episodio più riuscito dell’intero album) che si intravedono le enormi potenzialità di questa interprete, diretta discepola dell’ultima, californiana regina delle tenebre Chelsea Wolfe.
Insomma, la forza degli Opal Onyx sembrerebbe essere la loro capacità di mantenere una giusta distanza: ammiccano all’immaginario dark-wave e un po’ decadente, stando però bene attenti a non sprofondarci dentro, sono sofisticati ma non troppo, fanno un occhiolino all’elettronica ambient-drone ed un altro al post-punk. Sarà interessante vedere se in futuro continueranno con questo eclettismo à la Lynch o sceglieranno di nascondersi dietro più facili etichette.