Benoit Piolard, ovvero Thomas Meluch, è tornato alla Kranky e una nuova distesa di droni si dipana lungo un disco che toglie le parole. Ultimamente mi ha colpito molto un progetto in cui una telecamera riprende le periferie di Roma soffermandosi solo sui palazzi, evitando cioè le persone.
In “Sonnet” le voci non ci sono e se anche l’idea di fondo non si abbina con qualche quartiere romano c’è un aggancio che mi fa brillare gli occhi.
Quante persone realmente ascoltano musica ambient? Nei discorsi di tutti i giorni non traspare chiaramente, un censimento non esiste e seppur ci siano collegamenti al “rumore bianco” o alla “notte”, i facili accostamenti possono essere tranquillamente evitati.
Che sia Roma, la Scozia o Chicago poco importa. Anche la stagione ed il clima non dicono nulla di certo a riguardo, è capitato di ascoltare Tim Hecker in pieno agosto dopo pranzo, alla faccia dell’inverno e del buio.
L’assenza di luce è artificialmente possibile chiudendo semplicemente gli occhi.
Meluch si affida all’analogico, i software cedono il passo e le melodie toccano le corde di un essenziale a dir poco emozionante. La genuinità – ma questi suoni sono tutti uguali ci si sente spesso dire dai detrattori del genere – illustra un mondo tutt’altro che neutro, dove lo spettro dei colori si allarga e si restringe a seconda del momento. Sorrisi, malinconia, frammenti sonori diluiti nei loop e sirene sempre più vicine nel crepitio circostante che sale. La tensione di “The Gilded Fear That Guided the Flow” cresce, conquista spazio prima di sgorgare in un drone maestoso e pastorale che non deborda nel rumoroso, ma rimane in binari solo lievemente divergenti.
I piccoli interludi sono incastonati dappertutto e con “Whose Palms Create” si introduce una fragilità degna di un’avventura in spazi inesplorati e sconosciuti. Ci si può immergere completamente in quel territorio che va dai Boards of Canada agli Yellow Swans, senza mai raggiungere i due poli appena citati. La distorsione non esagera, il tintinnio è ridotto all’osso, mentre il vento spazza via le nuvole addensatesi con “The Very Edge of Its Flame”. Qui la foschia è comunque luminosa rincorrendo note che esprimono pace, in un tono minore ma non per questo impotente.
Le linee di chitarra sono rarefatte per fare tappa in un’isola dove la vegetazione è scarsa. L’atrofia non è mai banale, un nastro che si riavvolge a ritmi lentissimi e ciclici fino al silenzio più totale. Se qualcosa pare statico l’imperfezione dietro l’angolo conquista lo spazio, come le gocce di pioggia sporche che si infrangono sulla finestra appena lavata.
In questi giorni sento ripetere costantemente che chi non si distingue si estingue, dunque ben vengano album dove l’orecchio non allenato trova solo noia e ripetizione.
Ben distanti dal vittimismo morboso del “non ci capisce mai nessuno” ci si può distinguere senza ostentazione, o cercare una placida e tranquilla estinzione abbassando le palpebre.