Quando New York incontra Londra possono succedere cose esplosive. è questo il caso dei The Pains of Being Pure at Heart, gruppo indie pop-shoegaze newyorkese che il 23 luglio si è esibito ad Islington al The Garage, uno degli storici locali londinesi.
I The Pains-meglio abbreviare per questione di comodità  il bellissimo ma lungo nome, ovvero “I dolori di essere puri di cuore”-sono nati nel 2007 e il loro nome deriva dall’omonimo libro per bambini dello scrittore Charles Augustus Steen III.

La band, la cui formazione è cambiata molto nel corso degli anni, è al suo terzo album. I The pains, quattro ragazzi che sembrano degli adolescenti ma la cui età  va dai 28 ai 35 anni, sono accompagnati dalla voce e dalla tastiera di Jen Goma, la quale ha cantato nel primo album omonimo.
Ma ad aprire la serata è una band locale, i Desperate Journalist, quartetto composto da due ragazze (batterista e cantante) e due ragazzi (chitarra e basso).
Alcune impressioni: Jo Bevan, la cantante, si contorce un po’ troppo in vocalismi a volte inutili e che pare sembrano volti solamente a mostrare la potenza della sua voce. Il bassista, una brutta copia del frontman dei Green Day, Billie Joe Armstrong, cerca di rimanere imperturbabile nonostante nel locale faccia molto caldo e lui indossi una giacca di velluto. Riesce abbastanza nel suo intento perchè i giri di basso che esegue non variano molto.
“Cristina”, che probabilmente è uno dei loro cavalli di battaglia, è orecchiabile, ma ancora una volta suona come un’esibizione di vocalismi.

Sarò di parte, ma in quel momento tutte le attese erano per i The Pains.
Prima però vorrei capire cosa passa nelle menti di Christoph ed Anton Hocheim, chitarrista e batterista dei The Pains. Sono in piedi sotto il palco di fronte a me (ovviamente me ne accorgerò troppo tardi) e non sembrano molto entusiasti della performance, dondolano nemmeno la testa. Ma forse è solo il loro carattere e la loro discrezione. Il bassista Jacob Sloan che sembra il tipico nerd americano è in un angolo e non dà  segni di vita.
Quando salgono sul palco sono pacati e sorridenti, e lo rimarranno durante le quasi due ore di concerto. Sì, ho solo realizzato alla fine che ci hanno regalato ben due ore, che sono volate.

L’inizio però non è dei migliori. Forse Kip Berman doveva scaldare la voce, ma ho riconosciuto a fatica le prime due canzoni con cui hanno aperto il concerto, “Until the Sun Explodes” e “Heart in your Heartbreak”, nonchè una delle mie preferite del loro secondo album.
“Kelly” invece viene cantata dalla calda voce di Jen. Il suo dolce sorriso contagioso mentre canta e suona è una delle cose che mi ha colpito di più.
La maggior parte dei brani che si susseguono provengono dal secondo e terzo album, “Belong” e “Days of Abandon”. Purtroppo non molti pezzi vengono ripescati dal primo album che era stato realizzato quando la formazione della band era diversa.
La voce di Kip intanto si è riscaldata e finalmente la riconosco.
E così accade che grazie alle note di “Simple and Sure” e “Come on Saturday” si scatenano tutti, pure una ragazza asiatica dai movimenti robotici, accompagnata da un coetaneo che invece ha Elvis nelle vene.
Ma è con il ritornello di “Young adult friction” che si perdono le inibizioni: Now that you feel/it’s not real/Don’t check me out.
Sulle note di “Life after life”, cantata nuovamente da Jen, dondoliamo tutti la testa grazie all’atmosfera onirica e gioiosa che nel frattempo si è creata.
Il bis si apre con una scelta insolita, ma piacevole: una cover di “Ballad of the band” dei Felt, band indie pop inglese.
Ma quando sento l’attacco di “Belong” capisco che tutto sta per finire. “Change your mind and stop the time”. Purtroppo il tempo non si può fermare, ma si può fissare il ricordo. Questa è la canzone da cantare ad occhi chiusi, sapendo che non ci sarà  un altro un bis e quindi è meglio assaporare quelle note.
I The Pains scendono dal palco e io mi guardo intorno, riluttante cerco la mia giacca. Sarebbe anche un finale perfetto, invece i ragazzi tornano per la terza volta sul palco, si divertono davvero con noi.

“This love is fucking right” mancava nel repertorio. Non c’è molto da dire quando il sentimento è vero: You’re my sister and this love is fucking right.
I The Pains ci lasciano con un’altra cover, non solo un omaggio ad altri artisti, ma anche la dimostrazione di una band matura ed aperta il confronto. Jen fa venire la pelle d’oca con la sua esecuzione di “Laid” di James.
Tuttavia dopo due ore di concerto l’unica canzone che mi accompagna in loop verso la stazione della tube è ancora “Belong”. Faccio finta di conoscere perfettamente il testo, in realtà  continuo a ripetere: I know it’s wrong but we just don’t belong.
La parte migliore della canzone è invece: When you came through the door/I was sure you never even felt the floor.
Ed è così che mi sento uscendo dal The Garage. Il pavimento l’ho lasciato due ore fa quando i The Pains hanno iniziato a suonare.

Photo: Dirk Haun / CC BY