Prima di due date soldout alla Royal Festival Hall, ho rimediato all’ultimo minuto un posto laterale e sono felice come per pochi altri concerti: Sufjan Stevens dal vivo, in un teatro, nel tour di “Carrie & Lowell”, uno dei lavori migliori della sua carriera.
Sufjan entra rapido insieme a 4 altri musicisti e inizia subito con la strumentale “Redford” (da “Michigan”, 2003), per poi lanciarsi in una esecuzione integrale del nuovo disco. Alternando i brani più acustici incentrati sulla chitarra e sulla sua voce (sempre poco più che sussurrata, schivando il microfono e lasciandone risuonare l’eco in una sala in religioso silenzio) ai suoni elettronici che vengono riportati fedelmente ma al contempo con una quasi ricercata imperfezione e ruvidezza che li contraddistingue da quelli sull’album.
A guardare il palco senza sonoro sarebbe difficile aspettarsi tutto questo: Sufjan è l’unico ad avere una presenza scenica, ma in jeans, t-shirt nera con grande scritta “Hustler”, muscoli in evidenza e capelli corti sembra più un animatore da villaggio turistico (anche quando prova a mimare goffamente qualche parola dei suoi versi). Meglio sprofondare nelle scomode sedie che dalla mia posizione non lasciano quasi alcuna visibilità del palco a meno di appoggiarsi in cima allo schienale in strane contorsioni che sperimento insieme ai miei vicini di posto.
Sullo sfondo ci sono 9 esagoni oblunghi di LED, che proiettano come attraverso una persiana immagini di anni passati (poco importa se il bambino che si vede sia o meno Sufjan stesso) e spesso si soffermano per un’intera canzone su paesaggi quasi immobili di scogliere bagnate dalla risacca, tramonti da un aereo sopra le nuvole, canyon che si stagliano su cieli azzurri. I fari puntati sul pubblico colorano di rosso fette della lunga platea. Mentre la scaletta di “Carrie & Lowell” è rispettata quasi alla lettera, seguendo i ricordi della sua infanzia, scene dell’Oregon, oggetti insignificanti (uno yogurt al limone, un posacenere caduto a terra), sua madre Carrie sopra ogni altra cosa, la sua morte, la sua assenza. Alla fine di un’esecuzione da pelle d’oca di “Eugene” buona parte del pubblico e lui stesso sul palco faticano a trattenere le lacrime.
In netto contrasto con i colori e i costumi luminosi del precedente tour, stavolta Sufjan non sembra interessato a catturare la nostra attenzione. Senza neanche guardarci negli occhi ci ipnotizza in un incantesimo, fino a che l’intera pesante struttura anni ’50 della Royal Festival Hall sembra galleggiare in uno spazio etereo. Poi d’improvviso i grandi display esagonali si spengono e due fari bianchissimi descrivono l’intricata struttura metallica che li sorregge. “Blue Bucket of Gold” non parla più di ricordi, non servono diapositive, lo spettacolo è finito e la coda della canzone che chiude il disco si protrae più a lungo, in un crescendo di frequenze al limite inferiore dell’udibile e di quello che l’impeccabile impianto della sala può generare. Come una nave che accende tutti i motori per manovrare e infine attraccare in porto: fine del viaggio. Standing ovation.
Due minuti dopo Sufjan ritorna da solo, berretto da baseball in testa e suona “Concerning the UFO sighting near Highland, Illinois”. Visibilmente più rilassato, si condede qualche battuta col pubblico, presenta gli altri musicisti (niente Bryce Dessner questa sera, l’ospite è Nico Muhly) e continua ancora per 30 minuti in un jukebox di vecchi capolavori e pezzi meno noti, passando per “John Wayne Gacy Jr” e terminando con una “Chicago” affrettata e ridotta all’osso ma comunque bellissima. Fuori è buio e il cielo ha una luce rossastra che si riflette sul Tamigi. Non sono sicuro se sono ancora nella stessa città .