Alla fine di “Fight Club”, quando parte la canzone “Where Is My Mind?” dei Pixies, si vedono di spalle un Edward Norton ferito ma finalmente libero che tiene per mano, con tenerezza, Helena Bonham-Carter. Insieme assistono al crollo di tutti gli istituti di credito in cui erano state piazzate delle bombe. In quel preciso istante il regista David Fincher fa succedere qualcosa che regala ad un film già maestoso e sopra le righe un colpo di genio assoluto che ridimensiona il senso dell’intera pellicola. Bisogna, però, fare un passo indietro.
“Fight Club” è un film crudo, estremamente violento, provocatorio, coraggioso e pericoloso. Un film che viene prodotto con un budget di oltre 60 milioni di dollari ma sa essere viscerale, indipendente e soprattutto sperimentale. I colori sono opachi, le inquadrature studiate nel minimo particolare e gli attori sono tutti in stato di grazia, la trama è originale e coraggiosa. David Fincher, prima di questo film, era accusato dai critici di essere un regista prettamente interessato alla forma estetica dei suoi prodotti. Infatti arriva dalla pubblicità ma sa sfruttare con intelligenza il suo passato e questo si vede in alcuni vezzi che dissemina all’interno del film, come ad esempio quando Edward Norton cammina all’interno di una casa che diventa un catalogo Ikea ammettendo che una volta leggevamo pornografia ma ora siamo passati ad arredomania.
Il film è tratto dall’omologo e folle libro di Chuck Palahniuk, uno di quei romanzi che maltrattano il lettore e lo lasciano senza parole entrando con pieno diritto nella cerchia dei cult. Racconta di un giovane consulente del ramo assicurativo di un’importante casa automobilistica, benestante ma senza nome, interpretato da uno scheletrico Edward Norton, completamente solo e che soffre di insonnia. Quindi come lui stesso dirà : con l’insonnia nulla è reale. Tutto è lontano. Tutto è una copia di una copia di una copia. Cercando una cura contro questo suo problema e lamentandosi di soffrire troppo, un medico gli suggerirà , quasi ridicolizzandolo, di andare a vedere i gruppi di assistenza per i malati terminali per capire cosa sia davvero la sofferenza. Il protagonista seguirà alla lettera il consiglio e inizierà a fingersi uno di loro solo per potersi lasciare andare perchè perdere ogni speranza diventa per lui la vera libertà . Tutto sembra scorrere per il meglio, ritorna persino a dormire, fino a quando non conosce Marla Singer, interpretata da una sconvolgente Helena Bonham-Carter, che come lui, finge di avere malattie mortali solo per conoscere persone che si lasciano andare completamente e anche perchè in questi posti il caffè è gratis.
Il protagonista ricade nel baratro da cui con difficoltà era riuscito ad uscire proprio perchè scopre che c’è un altro impostore a parte lui. La menzogna di Marla riflette la sua e per questo non riesce più a piangere, non riesce più a sentirsi libero e di conseguenza non riesce più a dormire. Per lavoro è costretto a lunghi viaggi in aereo che aumentano in lui un senso di agonia e stress ma durante uno di questi incontra il miglior compagno porzione singola di sempre(c’è una divertente spiegazione a questa definizione che racconta proprio il protagonista nel film). Ha la sua stessa valigia ma è il suo completo opposto, è Tyler Durden, forse il miglior Brad Pitt di sempre. Tyler Durden è sicuro di sè, bello, acuto, atletico e soprattutto completamente libero. Vive vendendo sapone da lui stesso prodotto, usando, si scoprirà più avanti, il grasso delle liposuzioni delle donne grasse che si operano. Da lì in poi il protagonista entrerà in un vortice che lo condurrà nell’inferno del dolore e dell’autodistruzione. Insieme fondono il primo fight club, luogo con regole precise dove le persone insoddisfatte sfogano la loro rabbia repressa e la propria infelicità pestandosi a sangue a pugni nudi. E nonostante la prima regola del fight club sia che non si debba parlare del fight club, questi luoghi cresceranno in maniera esponenziale allargandosi a macchia d’olio per tutti gli Stati Uniti. Chi si picchia incomincia a sentirsi vivo ma tutto questo non è destinato a durare perchè il progetto di Tyler ha mire più ambiziose: lui vuole distruggere il capitalismo. Una follia che, però, trova sempre più membri pronti ad aiutarlo nel suo intento, nasce così il Progetto Mayhem. Il loro scopo è quello di distruggere la realtà moderna e far cadere l’umanità in una sorta di medioevo libero dal consumismo dove, usando le parole di Tyler: “uno si muove con gli alci, tra le umide foreste dei canyon intorno alle rovine del Rockefeller Center. Indosserà abiti di pelle che gli dureranno per tutta la vita. Si arrampicherà per le liane che avvolgono la Sears Tower. E quando guarderà giù vedrà minuscole figure che pestano granturco e posano strisce di carne di cervo sulla carreggiata vuota di qualche superstrada abbandonata”. Quando il protagonista si rende conto che Tyler è pericoloso è troppo tardi perchè in una delle scene più interesanti dell’intero film si scopre che in realtà sono la stessa persona. Uno shock tanto quanto per il protagonista che per lo spettatore, che fino a quel momento ha avuto diversi piccoli indizi, disseminati con sadico gusto da David Fincher, che però sono troppo difficili da interpretare e capire alla prima visione (ad esempio Tyler Durden apparirà ben sei volte prima del suo ingresso ufficiale nel film). Questo film va rivisto con calma e magari guardando alcune scene al rallentatore perchè solo così si può apprezzare la genialità del regista.
Ritornando all’inizio e cioè alla fine del film, mentre ormai sembra tutto finito, appare per un millesimo di secondo, il tempo di un battito d’ali di un colibrì, il fotogramma di un film porno che ritrae un pene, esattamente la stessa cosa che faceva Tyler Durden durante il suo lavoro di proiezionista nei film per famiglie, con l’intento di contaminare le nuove generazioni. E proprio come loro nessuno sa di averlo visto, ma l’avete visto. E questo l’ultimo regalo che ci fa David Fincher in Fight Club, un gran bel cazzo.
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Tyler
EXTRA SHOT: Il talento di un regista raccontato attraverso un film che lo rappresenta e attraverso quei piccoli colpi di genio che lo rendono un cult.