L’ultima volta in cui le cose non andavano proprio benissimo, ho cambiato le tende della mia camera, fiduciosa che dovesse esserci un qualche collegamento fra la qualità dell’arredamento e gli equilibri da ristabilire. L’ultima volta che è successo ad Adele, ha impacchettato il proprio cuore spezzato nel suo secondo album “21” e ha venduto 31 milioni di copie in un’era in cui comprare cd non è meno vintage della Lambretta 125. Già cantava di “non sottovalutare le cose che avrebbe fatto” perchè lei, lei sì, avrebbe “dato fuoco alla pioggia” e trasformato il suo dolore in oro prezioso. Cinque anni dopo non piovono ancora fiamme, ma il riconoscimento del talento di Adele è plebiscitario: l’hanno coverizzata tutti da Aretha Franklin ai Linkin Park (persino i Muppets); ha vinto più Grammy di quanti ne potesse tenere in mano; fra gli indici dei mercati e qualche analisi finanziaria, ha parlato di lei anche il Wall Street Journal per spiegare che c’è una motivazione scientifica se “Someone Like You” vi fa piangere, mica siete dei debolucci cuori-di-panna.
“25” esce in un’attesa carica di certezze più che di aspettative e non stupisce davvero il numero record di visualizzazioni per il singolo di lancio: “Hello” – superba su ogni altra dell’album – mette in scena una telefonata intercontinentale di scuse tardive e strazianti e porta a casa 27 milioni di click in 24 ore. Eccola Adele, imponente e scontata come l’amore, la rabbia, il rimpianto e l’intera tavolozza di sentimenti (e sentimentalismi) primari che fanno cedere le ginocchia e frignare in macchina quando piove a dirotto.
Il terzo lavoro del talento londinese ha ancora una volta un titolo anagrafico, ma i “25” anni di Adele ““ che ora ne ha 27 e un bambino di 3 ““ si macerano nella nostalgia-ossessione per una passata giovinezza che si direbbe già ricordo lontano: “When We Were Young”, la ballatona al piano in collaborazione con Tobias Jesso Jr., è anche la formula più ricorrente nelle quattordici tracce, al limite del credibile per chi non ha ancora toccato i 30. In “A Million Years Ago”, di elegante gusto melò solo voce e chitarra, la sensazione è proprio quella di essersi persi il fischio di inizio eppure trovarsi già a fine partita: “la vita era una festa da lanciare, ma questo era un milione di anni fa”. Mi torna in mente una scena di un bel Sorrentino tanto sottovalutato, “This Must Be The Place”, quando il protagonista osserva: “Il problema è che passiamo troppo velocemente dall’età in cui diciamo farò così a quella in cui diremo è andata così“. Pare che Adele ci abbia bruciati tutti sul tempo e sia già lì. O più semplicemente ha capito che la nostalgia è la sostanza stupefacente che causa maggiore dipendenza fra quanti ne abusano.
A ben vedere, nonostante sia un album già ben piazzato in partenza, intorno al quale hanno orbitato producer come Paul Epworth e Danger Mouse, collaboratori come Jesso Jr. e Bruno Mars, c’è poco coraggio, non si dica di sperimentazione ma nemmeno di variazione. è l’industria musicale, bellezza. Più Taylor Swift che mai nella super-pop “Send My Love (To Your New Lover)”, molto Cèline Dion nella polverosa “All I Ask” ““ odore di vecchio stantio, noia ““ e tanto Whitney Houston in “Remedy” fino ad azzardare un vocalizzo su I will always love you, per un attimo quasi citazione-tributo. Poco da ridire, invece, sui brani più ritmici come “I Miss You” e “River Lea” che funzionano benissimo; peccato si sia perso ormai del tutto quel beat vagamente jazz che ai tempi dell’album di esordio “19” permetteva di inserire nella lista anche il modello Amy Winehouse.
Cantava Paul McCartney nel 1976: You’d think that people would have had enough of silly love songs, but I look around me and I see it isn’t so. No, purtroppo o per fortuna, la gente non è ancora stufa delle canzoni d’amore. Soprattutto se hanno la potenza combustibile della voce di Adele Adkins e la furbizia compositiva di chi ne valorizza il mito crescente. Arrendetevi.