Le prime cose che mi sono venute in mente quando ho letto che il nuovo album de I Cani si sarebbe chiamato “Aurora” sono (in ordine di comparsa sul grande schermo del mio cervello): il quartiere di Torino in cui lavoro; la canzone di Ramazzotti dedicata alla figlia; il momento che precede l’alba, quello dell’ansia fortissima che ti schiaccia il petto.
Tralasciando la fuga del mio cervello verso approdi discutibili, torniamo a Niccolò Contessa. A due anni di distanza da “Glamour”, a ottobre 2015 è arrivato a sorpresa l’annuncio del nuovo album e, nel giro di qualche settimana, sono usciti i primi due singoli: “Baby Soldato” e “Il posto più freddo”. Non mi soffermerò sulla strategia di comunicazione a cui I Cani ci hanno abituato fin dalla loro comparsa nel 2010 (una perfetta macchina creatrice di hype), quello che importa in questo caso è l’impatto di questi due singoli (a cui se ne è aggiunto un terzo, “Non finirà “, il 18 gennaio). Sono spiazzanti.
In fondo “Glamour” era un’espansione (o un aggiornamento, come se fosse una app) del suono de “Il sorprendente album d’esordio de I Cani” (2011): a un primo ascolto non ci siamo ritrovati a chiederci se fosse Contessa o no, era chiaro che fosse lui. In quel caso la conferma arrivava anche dai testi: lo sguardo di Niccolò, profondamente realistico sull’umanità che popola “Il sorprendente album d’esordio de I Cani”, si era rovesciato per guardarsi e raccontare i dissidi causati dalla dicotomia arte/lavoro e gli effetti del successo ottenuto dopo il primo album.
Con i tre singoli che hanno anticipato “Aurora”, invece, le cose sono cambiate: un suono più morbido; una voce diversa, che pare fatta di seta; un’atmosfera profondamente malinconica anche quando lo sguardo del narratore è impietoso (in “Baby Soldato”, per esempio, i versi “non avresti mai detto di poter rimpiangere tua sorella con i suoi capelli blu, ribellioni patetiche da città piccola e tua madre che urla e tu non ne puoi più” ci avvicinano moltissimo a !questa ragazza gelida e determinata e fragile che pare lontanissima da noi).
Prendiamo poi “Il posto più freddo”. Quando l’ho sentita per la prima volta, ho scritto un messaggio su WhatsApp alla mia fidanzata e le ho detto che sembrava Alan Sorrenti fatto di oppio (la citazione sarebbe arrivata in “Protobodhisattva”: “veniamo dagli scarti di qualche supernova, figli delle stelle, ma lo sapevamo già “). “Il posto più freddo” è forse il pezzo più bello e doloroso scritto da Contessa, pop con un ritornello killer in tutti i sensi, perchè si attacca al cervello e perchè fa male, tanto riesce a essere particolare e universale nel suo racconto di una solitudine.
La conferma che “Aurora” sarebbe stato un album diverso è arrivata una decina di giorni fa con “Non finirà “, un pezzo funky in cui si sentono i primi Daft Punk, “Another One Bites the Dust” dei Queen e “Last Night a DJ Saved My Life” degli Indeep.
“Aurora” è un’altra tappa nel percorso di crescita di Niccolò Contessa come artista e come uomo. Non c’è più Roma e non ci sono pariolini e Caterine che leggono David Foster Wallace al parco; non ci sono i concorsi al Ministero e l’ansia non inchioda più al muro ma schiaccia il petto con una pressione costante che aumenta man mano che il buio si fa più fitto, fino a raggiungere il parossismo proprio poco prima dell’alba; l’unica vera nostalgia che ho ha assunto una forma cosmica e interstellare e viaggia nei cavi dell’Atlantico alla velocità della luce. “Aurora” sembra lontanissimo dai primi due dischi, ma in realtà non è che un’evoluzione naturale del percorso artistico di Contessa: non puoi avere vent’anni per sempre, crescendo la tua consapevolezza si espande come una goccia di benzina sull’asfalto e assume sfumature nuove, sempre diverse. Nel primo disco Niccolò raccontava frammenti di vite a lui vicine e nel secondo raccontava di sè: in entrambi i casi sembrava guardare la realtà attraverso una lente d’ingrandimento, portando in primo piano dettagli e particolari; in entrambi i casi riusciva a raggiungere chiunque, non solo un ventenne romano. Con “Aurora”, invece, compie un salto pazzesco: ci parla di noi e di sè guardandoci da un satellite, lontanissimo eppure vicino, con una visione più ampia, come se stesse spiegando a un alieno com’è arrivare alla soglia dei trent’anni. In effetti già in “San Lorenzo”, ultima traccia di “Glamour”, c’era un tentativo di guardare le cose da una prospettiva più larga, dall’alto: inutile esprimere desideri guardando una stella cadere, siamo così piccoli e insignificanti che è proprio arrogante (oltre che di cattivo gusto) pensare che all’Universo possa in qualche modo importare delle nostre richieste o che gli astri possano influire sulle nostre vite. Questo cambio di prospettiva si compie totalmente in “Aurora” e investe sia la musica che i testi. Un caso esemplare è “Calabi Yau”. Una risposta al dolore causato dalla morte (nello specifico quella di Enrico Fontanelli degli Offlaga Disco Pax, produttore di “Glamour”) può arrivare dalla teoria delle stringhe: “miliardi di mondi esistono ancora, miliardi di vite per provare ancora”. Anche dove pare non esserci nulla, ci sono altri spazi, qualcosa che va al di là di quello che possiamo vedere e toccare, oltre le quattro dimensioni spazio-temporali a cui siamo abituati. Il nostro universo è così complesso e misterioso che non ha senso cercarsi su Google: siamo insignificanti, non ruota tutto intorno a noi (come ci faceva credere uno spot della Vodafone di qualche anno fa). Proprio dopo “Calabi-Yau” arriva “Ultimo mondo”, un pezzo strumentale a metà strada tra Arca e Boards of Canada, scuro e profondo come l’Universo: è come abbracciare un satellite (d’amore, citazione di Lou Reed in “Aurora”) e chiudere gli occhi per ascoltare il suono che fanno i pianeti.
Alla dimensione cosmica, in “Aurora”, si affianca una certa tenerezza, un’attitudine molto pop a osservare gli affetti e le relazioni. C’è l’ironica “Questo nostro grande amore”, in cui la vita di coppia si intreccia all’economia (“immagina i bond di questo nostro grande amore in base al tuo tasso d’interesse per me, che tiene più dell’America, più della Goldman Sachs, regge più della Cina, di Shenzhen e Shanghai”) e alla possibilità di monetizzare un sentimento esponendolo e raccontandolo sui social o in un libro o in una (web)serie o in un film commerciale. In una forma canzone classicamente pop, rotonda come una sfera, Contessa prende parole lontanissime dall’idea consolidata di cantautorato e di cultura alta, parole che negli ultimi anni ci sono scivolate addosso senza lasciar traccia (o lasciando piuttosto un senso di squallore e di fine del mondo, forse), e le trasforma in un ritornello. Così ci ritroveremo a canticchiare sotto la doccia e poi a urlare ai concerti di bond, tassi di interesse, lunedì neri, default, banche centrali e World Trade Organization. Oltre alle già citate “Baby Soldato” e “Il posto più freddo”, la tenerezza cui accennavo prima è il cuore di una canzone come “Una cosa stupida”. Una specie di “Ancora tu” versione 3.0. La differenza, forse, è che qui la disperazione è più sottile e pervasiva, il dolore è un formicolio diffuso sotto la pelle, una spinta masochistica a voler rivedere una ex. E la sicurezza del maschio, tutto sommato ancora salvaguardata in Battisti (che tiene le redini del gioco, è pure spavaldo), qui crolla del tutto. Per arrivare a scrivere dei versi come “non so mai niente, solo che sei viva, perchè non ci vediamo un giorno, se ti va, e mi racconti, o se vuoi parliamo d’altro, qualunque cosa anche una cosa stupida” o sequestri Mogol, lo ipnotizzi e lo convinci a scrivere come faceva quarant’anni fa, oppure devi aver lavorato tantissimo su te stesso (nella recente intervista a Rockit Contessa ha raccontato di aver suonato il piano ogni giorno, una sorta di allenamento costante).
“Aurora” è un disco denso, che acquista spessore ascolto dopo ascolto. Come negli spazi di Calabi-Yau, ci sono un sacco di dimensioni non visibili, che non emergono a un ascolto superficiale. A proposito di fisica e di modelli geometrici, è interessante la simmetria “Non finirà “/”Finirà “, rispettivamente seconda e penultima traccia del disco. Se la prima è una canzone con un ritmo incalzante che gira con ironia attorno al concetto di fine della storia, la seconda è rarefatta e minimalista ed evoca invece proprio la fine della storia con un’apocalisse che scavalca pure quella descritta da Svevo nell’ultima pagina de “La Coscienza di Zeno” e coinvolge l’intero Universo.
Non è immediato aderire alle nuove canzoni di Contessa, specialmente per chi ha amato moltissimo i primi due dischi. I suoni più morbidi e dilatati, senza spigoli e smaccatamente pop, a cui si aggiungono i testi privi di riferimenti a Roma e a personalità come David Foster Wallace, Wes Anderson, Pasolini e Jay-Z, Piero Manzoni, non facilitano un accesso immediato a “Aurora”. è un disco a suo modo coraggioso: Contessa cambia di nuovo le carte in tavola e non ha paura di puntare risolutamente in direzione pop (evocando Battisti, Sorrenti, il Battiato de “La voce del padrone”, i Tiromancino), nonostante un cuore nero nascosto sotto la superficie (quello che non mi fa addormentare […] è un brivido lucido e nero come di seta, una scossa dal cuore alla pelle, un buio omega, “Sparire”).