Pur avendo ricevuto numerosi plausi, di critica e di pubblico, il precedente album dei toscani Appaloosa non aveva comunque raccolto il successo che, almeno nella mia modesta opinione, avrebbe meritato: “Trance44” sembrava coronare la metamorfosi che la band livornese aveva iniziato con “The Worst of Saturday Night”, trasformando il gruppo in qualcosa di più complesso rispetto alla già micidiale macchina da ritmo dell’ottimo “Savana”, muscoloso bignami di post-rock in chiave funk.
Se, in nel mix di elettronica tenebrosa e post-rock adrenalinico che formava “Trance44”, il difetto maggiore riguardava la messa a fuoco, nel nuovo “BaB” ogni incertezza viene abbandonata. Ugualmente sperimentale, l’album infila, come ormai da tradizione, brani più corposi ed altri dal minutaggio ridotto: l’alternanza permette alla band di dosare con personalità impennate ritmiche e incursioni in un magma di influenze eterogenee, spaziando da geometrie math a scansioni hip-hop, da echi industrial a sfuriate punk, da atmosfere doom a visioni techno.
Come l’animale raffigurato in copertina dall’artista finlandese Timo Ketola, “BaB” è un disco furioso e pronto ad agguantare l’ascoltatore: eclettico, eppure talmente compatto da risultare monolitico, il settimo lavoro degli Appaloosa conferma l’unicità del progetto, non solo in terra italiana.