Mark Kozelek assomiglia sempre di più al personaggio interpretato da Philip Seymour Hoffman nella pellicola “Synecdoche, New York” di Paul Kaufman, proprio come lui cerca di raccontarci la propria esistenza attraverso un film, replicando esattamente ogni avvenimento proprio nel momento in cui esso si sta verificando, con gli ovvi pro (la sincerità disarmante, l’empatia immediata con l’ascoltatore) e i contro (l’eccessiva verbosità , l’attenzione per i particolari secondari e inutili) del caso.
Dopo l’impareggiabile “Benj” di due anni fa e “Universal Themes” dello scorso anno l’ex Red House Painters decide di chiamare al suo fianco quel Justin Broadrick che sotto la sigla sociale Jesu ha contribuito ad allargare i confini di un genere che naviga da tempo immemore in acque stantie come il metal, arricchendolo di elementi appartenenti ad esperienze musicali apparentemente lontane quali la musica elettronica e lo shoegaze, diventando così l’alfiere del post metal.
Quello che poteva sembrare un matrimonio perfetto tra sperimentazione e disperato lirismo spesso però si va ad arenare in un confronto impari tra l’ego ipertrofico dell’omaccione dell’Ohio e le intenzioni iniziali, scontro che lascia ben poco spazio al collega essendo il nostro troppo occupato a renderci partecipi del suo mondo e della sua esistenza attraverso il solito flusso inarrestabile di pensieri e parole, rischiando così di rendere questa nuova uscita semplicemente un bis dei Temi Universali dello scorso anno, in tal senso le iniziali “God morning my love” e la seguente “Carondolet” sono da ritenersi assolutamente intercambiabili con i pezzi contenuti nel disco precedente.
Tuttavia quando Broadrick riesce a prendersi i suoi meritati spazi la differenza si sente e come: quanto guadagna l’interpretazione di Kozelek quando può distendersi sul tappeto sonoro sintetico che il suo socio dipana per lui in “A song of shadows” e in “Last night i rocked the room like Elvis…” ? Il gioco però purtroppo dura poco, torna a mostrarsi giusto nel finale con una “Beautiful you” in cui la voce viene cullata dolcemente in un liquido amniotico di riverberi acquistando un effetto quasi straniante; per il resto sono da segnalare la descrizione del lungo road trip italiano di “America’s most wanted…” e quello che forse è l’apice del disco, quella meraviglia che corrisponde al nome di “Exodus” in cui Crazy Koz in compagnia dei Low e di Rachel Goswell degli Slowdive esprime il suo dolore per la grave perdita subita da Nick Cave la scorsa estate.
In definitiva se da un lato siamo alle solite con il nostro che se la prende con tutto e tutti (fans compresi)e che ci mette a parte di ogni minimo avvenimento della sua interessante vita-sia che si tratti di tour, malattie, lutti, sbronze, concerti, telefilm visti e quant’altro-dall’altro è da festeggiare questa seppur imperfetta apertura verso altre sonorità che non può fare altro che farci ben sperare per il futuro, consci del fatto che Mr. Kozelek come noi sa benissimo che alla lunga il gioco può mostrare la corda: vista l’enorme prolificità dell’artista in questione non dovremo aspettare molto prima di scoprire se la strada seguita sarà quella giusta o meno.