Come nel famoso telefilm “In viaggio nel tempo” immagino di tornare indietro nel passato e di sedermi di nuovo di fronte al Matt Berninger solo e desolato di undici anni fa, quando passai l’intero pomeriggio a chiacchierare con lui, qualche ora prima della sua esibizione con la band tenutasi a l’Aquila con “Alligator” ancora fresco di stampa. Se quel giorno, di fronte a poco più di una mezza dozzina di persone in attesa, gli avessi comunicato che entro qualche anno avrebbe riempito locali, festival e piazze di persone provenienti da ogni parte del mondo secondo voi mi avrebbe creduto?
Probabilmente no, anzi, certamente mi avrebbe preso per pazzo, resta il fatto che anche questa data toscana sottolinea quanto i National siano da considerare la band più importante ed influente uscita fuori dalla scena indipendente durante l’arco degli anni zero.
Fa molto caldo in Piazza del Duomo e sono le otto di sera, un Father John Misty di nero vestito sale sul palco di fronte ad un pubblico curioso di verificare quanto di buono si racconta in giro a proposito delle performances dell’ex Fleet Foxes, bastano però poche mossette ben studiate del fascinoso cantautore statunitense a mandare in visibilio l’attento pubblico femminile.
Il signor Joshua Tillman conosce perfettamente l’arte dell’affabulazione e la mette al servizio di composizioni apparentemente classiche ma moderne nello spirito, i brani più acclamati sono naturalmente quelli tratti da “I love you Honeybear” dello scorso anno, con una “True Affection” che celebra il perfetto matrimonio tra Shins e Postal Service, una pestona “The ideal husband” che eccita il pubblico a dovere, l’attesa titletrack che viene cantata parola per parola da tutti i presenti, fino ad una divertita e divertente “Bored in the USA”, con tanto di teatrale illustrazione mimica: Padre John il Nebbioso gigioneggia e si diverte, si(e ci) prende in giro giocando con la sua immagine di bello e dannato, dandosi in pasto a noi che un po’ ce la ridiamo e un po’ cantiamo, lui può assolutamente permetterselo, questo in virtù di una manciata di grandi canzoni rock che in brevissimo tempo sono già dei classici del genere, il futuro, va da sè, è assolutamente suo.
L’esibizione dura all’incirca un’ora e termina quando il sole inizia a scendere, in quel momento inizia l’attesa febbrile per la band nativa dell’Ohio.
Il gruppo si presenta sul palco con i gemelli Dessner che si posizionano con le loro chitarre ai lati di Matt Berniger(con Aaron che si dividerà tra le sei corde e il piano), e con i due Devendorf qualche passo più indietro a dettare implacabilmente i tempi, con loro Dave Nelson alla tromba e tastiera.
Ma gli occhi di tutti sono naturalmente su di lui, il lungagnone malinconico con la voce da baritono, con i capelli un bel po’ cresciuti rispetto al passato, come la barba e la pancia del resto.
Come ci si aspettava il live inizia con una versione tirata di “Don’t swallow the cap”, seguita a stretto giro da una “I should live in salt” che dà il via ad uno spettacolo parallelo che si svolgerà tra le fila del pubblico, il quale canterà da lì in poi ogni singolo brano proposto, segno tangibile di un successo che va al di là delle mode del momento.
Per chi come me segue da tempo la band è risultata molto interessante la parte centrale del concerto, la quale ha visto i nostri alle prese con le nuove composizioni, quelle che dovrebbero andare a far parte del nuovo album in uscita presumibilmente nel 2017, a queste si è aggiunta anche quella “Peggy-o” ormai da tempo stabilmente del repertorio Nazionalista e tratta dal monumentale tributo ai Greateful Dead curato dal gruppo nei mesi scorsi.
La cantabilità pop di “The day i die” conquista in maniera istantanea i presenti, più tempo impiegheranno immagino “Sometimes i don’t think”, l’interessante “The Lights” e “I’m gonna keep you”ad entrare nel cuore dei fans, che sì, sono curiosi di conoscere il materiale in via di rodaggio, ma che in definitiva sono lì per ascoltare quei pezzi che hanno conferito ai National lo status attuale.
Ed è davvero difficile parlare di canzoni che nel corso degli anni sono cresciute in maniera esponenziale e che dal vivo hanno acquistato un impatto pazzesco, basti vedere cosa accade già dalle primissime note di una “Fake empire” o di una disperata “England” con la sua esplosione finale, o come in pochi attimi si passi dai febbrili ritmi sincopati descritti dalle pelli di Bryan Devendorf in “Squallor Victoria” e “Graceless” al romantico intimismo di “I need my girl” e “This is the last time”.
Un capitolo a parte merita “Pink rabbits”, canzone che nel giro di tre anni è diventata la preferita della maggior parte dei fans, tanto che la sua languida eleganza ha meritato addirittura un flash mob organizzato da svariati mesi in rete, con annesso corollario di braccialetti rosa fluorescenti da tirare fuori al momento del pezzo in questione.
Un concerto dei National è come una cerimonia sacra, ha le sue regole a cui attenersi strettamente, una di queste riguarda il gran finale: semplicemente non è permesso a nessuno lasciare l’arena senza che prima Matt Berninger non si sia gettato in una corsa a perdifiato tra il suo pubblico, solo dopo di questo può arrivare il commiato cantato a squarciagola di “Vanderlyle crybaby geeks”, poi tutti possono andare in pace incontro ai loro destini.
E questo accade, per il dispiacere del personale della security che come al solito deve beccarsi il classico esaurimento nervoso per stare appresso a questo strambo americano nato per correre, è il momento di “Mr. November” e “Terrible Love”, Matt Berniger srotola quell’incredibile cavo per microfono che pare non finire mai e si getta tra la folla travolgendo tutto e tutti, raccogliendo l’affetto del suo popolo che lo ha eletto da anni come portavoce della propria malinconia.
E sì, si finisce con le chitarre acustiche a cantare e battere le mani, a dirci che scapperemo di casa e cambieremo nome, che ci impiccheremo per amore e che un giorno proveremo a spiegare tutto ai geeks.
No, quel giorno di mezza estate di tanti anni fa non mi avresti mai creduto se ti avessi raccontato tutto questo, ma ci avresti sperato con tutte le tue forze, e io sono davvero contento che non ci sia stato bisogno di nessun mio intervento dal lontano futuro per spingerti nella direzione giusta, perchè il meritato successo caro Matt te lo sei costruito da solo insieme ai tuoi compagni d’avventura…alla prossima amico mio.
(Si ringraziano per le foto Chicca Maralfa, Daniele Pampanelli, Alessandro Rondinone e Viviana Rondinone)