L’arrivo
Il signor Marco Beltramelli e la signorina Alma Malara sono urgentemente richiesti all’imbarco
Inizia così la nostra avventura. Manco il tempo di partire che già stavamo perdendo l’aereo presi com’eravamo dalla discussione sulle tette di una maggiorata in filo con noi al check-in. Anche le protesi al seno avranno un life cycle design, il chirurgo che le ha progettate avrà preso in considerazione la questione dello smaltimento? L’aereo in compenso arriva con un quarto d’ora d’anticipo, tutto sembrava procedere per il meglio. Sembrava. Non appena atterrati a Palermo il nastro trasportatore decide di incepparsi catalogando come disperso un unico bagaglio. Ovviamente, quello di Alma.
All’addetta ai bagagli non sembra importare molto, è una signora loquace, ci chiede dove andiamo – a Castelbuono ““ le rispondiamo, guarda caso, il paese natale del suo dolce preferito. “Ragazzi lo so che siete preoccupati per il bagaglio ma non posso fare a meno di pensarci, mentre vi parlo vi state trasformando in due enormi budini alla cannella” perchè non importa cosa vi sia successo ,in Sicilia, parlare di cibo rimane sempre e comunque una questione prioritaria. Ci lava totalmente il cervello, le Teste di Turco rimarranno un’ossessione per tutta la nostra vacanza.
Esco a fumare un sigaretta, ormai era passata più di un’ora dal nostro atterraggio, fuori dall’entrata vedo una ragazza bionda appoggiata ad una Peugeot grigia con un’insolita eleganza da ballerina. è fin troppo carina, sarei un illuso a sperare sia la ragazza che doveva venirci a prendere in aereo porto. Rientro, Alma felice mi corre incontro saltellando, l’enorme zaino che conteneva il suo computer, la macchina fotografica, la tesi ed in definitiva un po’ della sua vita sembrava d’improvviso aver perso tutto il suo peso. Il nastro trasportatore aveva semplicemente avuto un problema tecnico ed una volta risolto il bagaglio è stato recuperato. Muoviamoci, Giorgia è un ora che ci aspetta, ha una Peugeot grigia.
Giorgia è una ragazza siciliana che studia a Milano, al Politecnico, ci scorta fino a Palermo dove abbiamo la navetta per Castelbuono alle 14,30. Sfruttiamo l’occasione per pranzare insieme e visitare la città . Ci guida prima in macchina per i viali alberati ed infine a piedi per i vicoli di Ballarò. Ovviamente Palermo mi piace, ho una predilezione per le città portuali, è caotica e fantastica sotto ogni punto di vista, le montagne che la circondano tolgono il fiato più del mare che la lambisce, per la mia felicità riusciamo a passare anche di fronte lo stadio, il Renzo Barbera ormai orfano di due miei idoli fantacalcistici come Franco Vazquez e Paulo Dybala. Pranziamo al mercato, la Sicilia è un altro mondo, un panino con le panelle enorme costa 1,50 €, tre geli di melone e tre caffè solamente 5 euro.
Comunque Alma io non salpo dalla città finche non trovo la droga, cosa vuol dire andare ad un festival senza la droga?. E con droga intendo banalmente un par de cannette, cosa credete! Fortunatamente Ballarò si dimostra un mercato efficiente sotto ogni punto di vista. Vengo adescato da un vecchietto al banco frutta, comprendo il segnale, ci indirizza ad un bar africano con un improbabile santino a forma di Gesù posto sopra una sfera stroboscopica all’entrata, l’unica inquietante fonte di luce dell’angusta stanzetta. Sulla parete opposta troneggia un enorme dipinto di almeno tre metri raffigurante un torero. La barista ghanese sta discutendo con quella che probabilmente è un’anziana prostituta, fumano all’interno del locale. Dovendo aspettare un po’, ci sediamo per sorseggiare dell’acqua naturale, ignaro delle usanze siciliane scoprirò solo in seguito che acquistare del fumo a Ballarò è una pratica del tutto normale ma la realtà è che in quel momento l’unica cosa che mi aspettavo realmente era un’enorme paccata. A discapito di ogni mia più nefasta previsione le regole del mercato vengono rispettate, qualità ottima a prezzi bassissimi, in tutta la provincia di Palermo, a quanto pare, è più difficile trovare una bottiglietta d’ acqua frizzante che un ventello d’erba.
Stiamo per perdere anche la navetta, la fermiamo correndo ma non abbiamo ancora i biglietti. L’autista ci aspetta. La calma contraddistingue i siciliani ed io, da buon bradipo prestato ad una frettolosa città del nord, non posso che trovarmi a mio agio. Castelbuono finalmente stiamo arrivando. E siamo carichissimi, così carichi che sul pullman ci addormentiamo.
Scesi dall’autobus conosciamo Giuseppe, Valerio, Antea e Simona, loro andrebbero citati a prescindere solo per il numero abominevole di sigarette che gli ho scroccato. I ragazzi dello staff dell’Ypisigrock ci stavano già aspettando ma la navetta per il camping era appena partita e per non farci aspettare caricano tutti su un piccolo furgoncino. Si sta un po’ stretti ma nessuno sembra farci caso, il poco spazio a disposizione diventa ben presto un primo pretesto per iniziare a socializzare.
Arriviamo in cima ad una piccola montagna, il campeggio è immerso in una splendida pineta. I ragazzi sono così accoglienti che anche nella nostra catapecchia di tenda ci sentiamo già a casa. All’ entrata del camping un cartello indica le coordinate con i più grandi festival del mondo, dopo questi 4 giorni maturerò una certezza, l’Ypsigrock merita senza ombra di dubbio un posticino nell’elite dei migliori eventi musicali europei.
GIORNO 1 – Finalmente la musica
Alma si sveglia presto, io un po’ meno. La pace idilliaca che fino a quel momento era andata istaurandosi sembrava esser minata dall’arrivo dei nostri vicini di tenda portatori minacciosi di una chitarra. Penso al risveglio pessimo che mi attende: bagni chimici e strimpellate di Bob Marley. Invece no, il repertorio del nostro dirimpettaio spazia dagli Strokes ad Iosonouncane. Mi lavo i denti al sole godendomi una meravigliosa versione acustica di Hard To Explain. L’Ypsigrock sembra costantemente voler salvaguardare la nostra serenità .
Che i ragazzi dello staff fossero gentili lo avevo già dedotto contattando Marcella Campo, l’organizzatrice dell’evento, ma non pensavo che questa disponibilità potesse raggiungere apici tali da mettermi in imbarazzo. Dovrebbe essere chiaro a chiunque voglia approcciarsi alla creazione di un evento, un festival è un’esperienza totale non può limitarsi alla proposta musicale. Una line-up con i contro cazzi è sicuramente l’ elemento imprescindibile, e questa all’Ypisgrock non manca, ma a rendere unica questa rassegna è qualcosa che persino ad i più famosi cugini inglesi manca, una tradizione enogastronomica eccellente, la magia evocata da location assolutamente fuori dal comune e la gente . Soprattutto la gente. In un’unica parola, la Sicilia.
I ragazzi dello staff sono tutti castelbuonesi. La scritta sul mio braccialetto recita guest e mai in nessun festival tale acronimo è stato più azzeccato. Ci si sente veramente ospiti e la concezione dell’ospitalità al Sud Italia è qualcosa di radicalmente diverso. L’Ypisgrock è letteralmente la trasposizione musicale dello spirito della sua terra, qualcosa di più profondo di un festival, che trascende l’ambito musicale per tracimare in quello antropologico. (E poi mi piace immaginare la line up come ad un gigantesco menù, come le innumerevoli portate di un immensa tavolata alla siciliana.)
In realtà il braccialetto non l’avevo ancora preso, l’accredito a quanto pare andava ritirato direttamente giù in paese. Scendiamo con un buon margine d’anticipo, alle 17,30 si apre con Il cielo di Bagdad al Chiostro di San Francesco. Gli addetti all’entrata mi dicono che il braccialetto si ritira al botteghino principale di fronte al castello, al castello mi dicono che devo andare ritirarli all’Ex Chiesa del Crocifisso. Un forzato tour turistico di Castelbuono ci costringe a perdere la prima esibizione in compenso abbiamo l’occasione per godere a pieno dell’appena avvenuta restaurazione della cappella sconsacrata e per l’unica volta in tre giorni apprezzare con calma e senza centinaia di persone attorno le magnifiche illustrazione del progetto This is not a love song che tappezzavano le pareti.
Ritorniamo in chiostro in tempo per Georgia. Georgia è un duo formato da Georgia per l’appunto e da una biondissima ragazza di origini asiatiche. Sono potenti, una specie di via di mezzo tra Grimes ed i White Stripes. Georgia empatizza molto facilmente col pubblico grazie a dei brevi monologhi in italiano. Sara, una nostra amica, nel frattempo si era allontanata per andare in bagno ma era un po’ troppo che non tornava, quando ci voltiamo la troviamo accasciata ad una colonna del chiostro. Sbiancata, sudava freddo. Il concerto era ormai finito da un po’ e Georgia, che dall’alto del palco si era accorta delle condizioni precarie della nostra compagna, con premura materna si preoccupa di portarci dell’acqua. Chiacchieriamo, ha aspettato con noi l’ambulanza, ad ottobre tornerà in Italia per aprire ai The Kills, scherziamo sul fatto che sia a Milano che a Londra esista un Fabrique e che in entrambi i casi accettare bottigliette d’acqua dagli sconosciuti potrebbe non rivelarsi una mossa vincente. Sara comunque ha avuto un normale calo di pressione, due fialette di glucosio concentrato (con l’equivalente calorico di una decina di arancini) e ricomincia a prendere colore. Un po’ in ritardo sulla tabella di marcia ci ri-dirigiamo all’Ex Chiesa del Crocifisso per assistere al concerto dei Birthh.
I Birthh li avevo visti per la prima volta pochi mesi prima al MI AMI, mi erano piaciuti e , difatti, erano uno dei concerti che attendevo di più. Non hanno deluso le mie aspettative. Confermo , sono una band di cui preferisco godere live che in cuffietta ma era anche il primo concerto a cui assistevamo nell’ex chiesa sconsacrata e l’atmosfera non ha fatto altro che accrescere la loro prestazione. Le installazioni luminose ed il dream pop candido di Alice Bisi s’intonavano alla perfezione con le bianchissime pareti della chiesa, se posso azzardare un paragone i Birthh sono forse quel che di più simile ai Daughter esiste oggi in Italia.
Lo stomaco comincia a reclamare e, sant’Iddio, siamo pur sempre in Sicilia. Decidiamo per comodità di cenare in un bar nei pressi del castello. Seduti ai tavolini nel via vai di via Sant’anna incrociamo diversi ragazzi del camping che ci danno pareri contrastanti su tale Oscar.
Ci inoltriamo nel castello in tempo per goderci i The Vryll Society ma utilizziamo questo tempo per ambientarci. Il castello di Castelbuon è certamente più piccolo di quello di Ferrara (l’unico in cui ricordo di aver assistito ad un concerto) ma ha un impatto decisamente maggiore. Non si sviluppa sul piano allontanando la gente dal palco bensì in verticale. Le persone si dispongono lunga una passerella a serpentina formando una gradinata umana degna di uno stadio, più in basso, la piazza ciottolata dove sorge il palco ricorda l’antenata medievale di quello che ai giorni nostri chiameremo parterre. Sembra un castello costruito appositamente per i concerti, un palazzetto dello sport fuori dal tempo. Troviamo spazio sulla scalinata a non più di 5 metri dal palco in una posizione privilegiata ed esclusa dal pogo. Decidiamo di goderci da qui i Mudhoney anche se, in realtà , godersi i Mudhoney forse voleva veramente dire trovarsi di mezzo alla ressa. Vabbè , avevo appena mangiato e volevo risparmiarmi per i Vaccines.
I Mudhoney sono probabilmente il gruppo più anziano della rassegna ma la loro prestazione non ne risente per nulla, “Suck You Dry”, “You got It”, non ricordo precisamente l’ordine, quel che è certo è che la band di Seattle inaugura la grande stagione del pogo dell’Ypsigrock. Per chi non lo sapesse i Mudhoney sono la band più emblematica nella formazione dei Nirvana, Mark Arm ha in effetti quel qualcosa di Kurt Cobain (che poi in realtà sarebbe il contrario), forse perchè sbraita ed ha i capelli biondi. è vestito come uno skater sedicenne e sul palco si muove un po’ come si muoverebbe Iggy Pop, a quasi 60 anni non deve essere facile reggere determinati ritmi a determinate temperature. La musica dei Mudhoney lo costringe ogni volta a da dare tutto sè stesso, si ferma un attimo We are playing fucking rock n roll for more than 30 years but now we are probably to old . Riprende fiato, sorseggia un goccio di Nero d’Avola, attacca “Touch me I’m sick”, credo. Il pubblico è il delirio.
Finalmente è il momento dei Vaccines. Prendiamo una birra andiamo a pisciare. Riconosco le note di “Teenage Icon”, scendo di fretta la scalinata e in men che non si dica mi ritrovo appiccicato alla transenna. I Kooks, i Kasabian, i Vaccines per l’appunto sono tutti gruppi che pur riconoscendo minori nella storia della formazione dell’identità musicale di una nazione in un preciso momento storico la mia tardo adolescenza devota alla grande madre Inghilterra non può far a meno che amare. Come presumevo mi diverto molto di più sulle note delle canzoni di What Did You Expect from The Vaccines e di Come of Age rispetto a quelle dell’ultimo album. Una parte del più scatenato pubblico “anziano” dei Mudhoney si era ormai fatto in disparte lasciando spazio a baldanzosi giovincelli che hanno dato vita ad un pogo meno diffuso ma fin troppo ignorante. è incontrovertibile, il mestiere delle band si riversa anche sui suoi spettatori. Non importa. Canto fortissimo “Post Breack Up Sex” e “I Always Knew”. Justin Young se la tira un po’ troppo, interpreta Wetsuit come un attore di drammi ma non riesco a non adorarlo. I Vaccines sono stati perfetti. Sudato come non mai faccio ritorno con gli altri alla navetta continuando a fischiettare “Norgaard”.
(Ad onor di cronaca, al rientro al camping, assistiamo al dj set del progetto catanese Torakiki, dategli un ascolto)