Ci sono pose, magliette, modi di dire, amicizie che invecchiano malissimo.
Così come Facebook ci spiattella davanti agli occhi ogni giorno con la sua applicazione “Accadde oggi”: post, parole, selfie sfocati e sudati che semplicemente oggi ci basterebbero per depennare uno sconosciuto dagli amici ma che un tempo erano considerati degni di essere condivisi da noi.
Questo gap tra gli anni l’avevo pure declinato ai miei gusti musicali, per spiegarmi la crisi che avvertivo attorno alla scena dell’Indie-Rock.
Mi dicevo tra me e me, che per quanto potesse essere più fiacca e fuori fuoco di un tempo, semplicemente quella musica non mi parlava più, quei temi non mi toccavano più e l’unico sentimento che potesse suscitarmi il clima creato dal brano era la nostalgia nei confronti di ciò che è stato.
Poi ascolto “Teens of Denial” e molto candidamente cambio idea: trovo una nuova quadratura del cerchio a partire dalla chitarra di Will Toledo.
Capisco che effettivamente il mio disinnamoramento al genere era dovuto un po’ alla mia crescita ed un po’ ad un tangibile momento di fiacca delle scena.
Ma andiamo con ordine.
“Teens of Denial” è il primo LP inedito di Car Seat Headrest per la Matador Records ed è, molto banalmente, un album veramente ben fatto: lo è sia per la sua composizione ispirata sia per la scrittura che è caustica, asciutta e pericolosissima.
Il tema è quello dell’inettitudine e della difficoltà nel trovare la propria dimensione che, per quanto sia a volte abusato, rimane sempre profondamente centrato con quello che è il modo di percepire il mondo di noi ventenni.
Ed è qui che prima di tutto che Will Toledo mi conquista, usando un linguaggio della mia adolescenza per parlarmi ora.
Il passaggio, lo scatto che riesce a muovere la canzone nell’ascoltatore non è assolutamente scontato.
Del resto siamo abituati ad associare la musica alle immagini ed alle emozioni e l’indie rock è la grande festa, il dance-floor.
Qui invece lo spazio dedicato ai catartici baci rubati ai falò viene riempito dal confuso viaggio verso casa, come viene ben esplicitato in “Drunk Drivers/ Killer Whales” (We’re just trying, I’m only trying to get home.)
Ed ancora, in “Vincent” nella misura in cui l’autore affronta la sua capacità nell’entrare in relazione con le persone, con se stesso e con l’ambiente.
Lo stile è, secco, a volte quasi colloquiale. La totale mancanza di retorica e i riferimenti ad immagini ed a luoghi comuni di tutti noi portano inevitabilmente ad empatizzare.
L’apice emozionale e lirico dell’album arrivo poi con “The Ballad of Costa Concordia”: qui per una volta Will Toledo abbandona la sua narrazione schietta per servirsi di una metafora potente e dolorosa, quella del capitano di una nave che affonda.
Ed è incredibile la crudezza con cui l’autore riesce a creare una connessione tra le vicende che noi tutti conosciamo e la quotidianità che viviamo: attraverso l’inettitudine del capitano viene enfatizzata e portata all’estrema conclusione anche la nostra incapacità nel prenderci carico delle responsabilità che la vita ci pone a carico.
Il tutto poi è vissuto in una logica conflittuale in cui l’incarico, il peso da noi percepito come esorbitante, è reputato sostenibile ed alla nostra porta dall’occhio di che ce l’ha affidato.
“How the hell was I supposed to steer this ship?”
Per quanto le parole, come ho accennato, sarebbero sufficienti a rendere questo album una piccola perla generazionale, la musica è la cornice perfetta su cui si adagia il racconto di Car Seat Headrest.
La composizione infatti dona luce nuova ad un indie-rock di stampo classico, in cui la ritmica della chitarra assume un ruolo centrale.
Le melodie per quanto siano elaborate rimangono facilmente assimilabili e digeribili, come è prerogativa del garage-rock.
In questo quadro rassicurante, in questo gradito ritorno a casa, l’unico elemento di novità rimane la durata delle canzoni: la maggior parte dei brani supera infatti i sei minuti ed alcuni (“Cosmic Hero” e la già citata “Vincent”) toccano addirittura gli otto minuti.
Senza strafare, l’architrave rimane quello asciutto dell’indie ma si allunga fino ai propri limiti più estremi.
Da questo punto di vista rimane un’eccezione ancora una volta “The Ballad of Costa Concordia”, composizione molto più elaborata, divisa in tre parti: la prima più lenta ed emozionale, quella centrale declamata, quasi sputata fuori di getto, e la conclusione adrenalica, in un’accellerazione improvvisa di chitarra e voce che mi ha ricordato i primi Arctit Monkeys.
Insomma, “Teens of Denial” è un lavoro fenomenale e lo è per l’atmosfera che si crea attorno ai brani.
E Lo è per la sua capacità nel colpire duro e nella sua opposta capacità nell’essere a modo suo rassicurante.
Nel ritmo adrenalinico e nella voce piena, alla Eddie Vedder, di “Fill in the Blank” o nei cori straziati in chiusura di “Druk Drivers/ Killer Whales” c’è tutta la nostra adolescenza che arriva a compimento e si evolve in qualcosa di nuovo, confuso, ma a modo suo riconoscibile.
Qualche mese fa sono andato alla serata di apertura del Beaches Brew a Marina di Ravenna per andare a sentire Will Toledo ed a fine serata mi sono trovato fianco a fianco con lui, in fila per il bagno, da un tabaccaio.
Nelle sue braccia incrociate, nel suo aspetto poco cool e nella sua espressione a metà tra lo scazzato e lo spaesato ho trovato come una risposta ad una domanda che non mi ero mai posto: la capacità di Car Seat Headrest nell’inquadrarci tutti sta proprio nella naturalezza con cui si lascia guardare dentro attraverso la musica. Le parole non sono solo belle ma sono soprattutto sincere; in quel suo sguardo spaesato e fisso c’era un po” la storia di tutti noi, la storia di file in bagno a kilometri dal proprio letto, quando qualcosa dentro vorrebbe spingerti unicamente a tornare a casa. Ma non puoi.