Faccio musica da sempre: è il mio nutrimento, il succo che mi dà  energia.
Sandro Joyeux non ha una casa di mattoni, ma una fatta di strade e di corde di chitarra.
Ha viaggiato in decine di Paesi, li ha attraversati, assorbiti ed esplorati. Ha fatto una scelta coraggiosa, quella di vivere il mondo e la musica. Una carriera nata nel coro di una radio francese, snodatasi tra le strade e tra progetti a sostegno dei più deboli, come l’Antischiavo tour del 2012, a sostegno dei braccianti stagionali italiani.

Il suo primo album del 2012 che porta semplicemente il suo nome, “Sandro Joyeux”, racchiude la sua essenza, ma non la estingue. E nel disco “Migrant”, Sandro ribadisce la propria politica di suono: la porta della sua musica è sempre aperta, pronta a ospitare nuove collaborazioni, amicizie e cause da difendere.

Metà  francese, metà  italiano, nato a Parigi 39 anni fa ma con il cuore in Africa: di che Paese ti senti cittadino? E, curiosità , quante lingue parli, in che lingue canti e perchè proprio in quelle (se un motivo c’è)?
Mi sento cittadino del mondo, sarà  dovuto alla mia gioventù a Parigi il fatto di essere cosmopolita. A scuola, nella mia classe eravamo in 30 e venivamo dai 5 continenti.
Canto in francese, pidgin, bambarà , sussu, wolof, urdu del Pakistan. Alcune di queste lingue le ho studiate sul posto (durante i miei viaggi e le mie residenze in Senegal, Marocco e Mali), altre con amici provenienti da quelle etnie. Non sono africano, ma mi sento panafricano…

Suoni spesso con altri musicisti, e hai avuto due importanti esperienze in gruppi, con i King’s Roots e quella con i 100Dromadaires. Come sono nate e come e perchè sono finite?
Quella coi King’s Roots fu la mia prima esperienza di band nel 97, facevamo reggae roots ma eravamo principianti. Suonammo in giro per 3 anni poi ci siamo sciolti, ognuno andò per la propria
strada, ma siamo rimasti molto amici. Invece con 100Dromadaires abbiamo suonato parecchio nella regione di Lille, in Savoia e in Belgio, aprendo anche i concerti di Omar Sosa e Seun Kuti…

Com’è sbocciato l’amore per i suoni e la poesia dell’Africa nera?
Uno dei temi principali nel reggae è il ritorno verso la terra madre, il famoso “exodus” di Bob Marley. Cercando un po’ di suoni afro, trovai una cassetta di Boubacar Traore e questo anziano cantante del Mali mi ha cambiato la vita. Mi misi a studiare i suoi pezzi uno per uno. Poi avvenne il grande salto, e andai a Bamako a casa sua per studiare. In seguito ho scoperto tanti altri artisti favolosi, Oumou Sangare, Kasse Mady Diabate e i griots del west africa.

Ti definiresti un Griot europeo, un cantore e preservatore della tradizione africana?
Mi vedo più in un ruolo veicolare, mi sento un paladino di questa cultura, la voglio esportare là  dove non è arrivata. Si nasce griot, non lo si diventa. E’ una formazione che si svolge all’interno di una famiglia, e si tramanda da padre a figlio, così da 70 generazioni.

Da “bravo ragazzo” del coro alla scelta di suonare per strada: perchè hai deciso di fare il busker per tanti anni?
E stata una volontà  ma anche una necessità . Parigi è una citta dura, e molto cara. Ho campato così per anni, in giro per l’Europa. Viaggiare in autostop (ho fatto più di 500.000km), incontrare il mondo, sviluppare contatti, studiare di qua e di là .

Parlaci di “Migrant”, il tuo ultimo progetto.
Suono da 6 anni nei campi di braccianti, nelle tendopoli, negli SPRAR e in altri CARA.
Assistendo alla tragedia che si stava – e ancora si sta – svolgendo in Italia, ho deciso di produrre, insieme alla mia etichetta, Mr Few, un EP sul tema delle migrazioni,
raccontandone alcuni suoi aspetti. Sono molto felice della collaborazione con alcuni musicisti marocchini. Il progetto vede anche la presenza di Eugenio Bennato nel brano “Ce n’est pas à§a”.

C’è qualche incontro/collaborazione musicale che ti ha particolarmente segnato e qualcuna che sogni?
Credo che tutti gli incontri portino qualcosa, anche quelli con principianti. Penso in particolare a Elmando (eroe della canzone omonima), un uomo congolese che viveva per strada a Parigi. Suonava malissimo ma cantava con un vocabolario tutto suo, utilizzando espressioni metaforiche di sua invenzione. Una meraviglia poetica.
Nel futuro mi piacerebbe ospitare in alcuni nuovi brani Tony Allen, Bombino, Babà  Maal.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Farmi conoscere in Senegal dove questa volta si è creata una dinamica bellissima. Sono appena tornato dal mio ultimo viaggio, e non vedo l’ora di ripartire. Ho avuto la fortuna di incidere in studio a Dakar con musicisti locali di altissimo livello. Magari, potrei anche realizzarci il prossimo disco integralmente.