La fortuna di avere delle cuffie scassate è che il mondo costruito dalla tua musica è assolutamente lo-fi: la doppia botta di culo è nell’amore incondizionato per il genere, quindi apparecchi acustici lerci e malandati is the new Bose.

Nel mio ascolto a caccia di novità  del venerdì sera, mentre tutti cercavano il pelo nel disco de Lo Stato Sociale, sono arrivati i Fawns Of Love, duo californiano autore del disco Who Cares About Tomorrow.
La bellezza assoluta del loro disco sta nell’aver creato uno zoo per gli amanti del dream pop. L’idea dello zoo e del safari mi perseguita ultimamente, dato che ancora mi riprendo da Bestiario Musicale di Corsi.
Sempre in settimana la vista di un libro intitolato “The Paper Zoo: 500 Years of Animals in Art” mi ha completamente trascinato in un clima di amore verso il selvaggio.

L’immagine dello zoo rimane comunque appropriata per il lavoro, vista la dimensione di un suono molto wild, ma che mai esce fuori da determinate “gabbie” o concetti musicali propri del lavoro.

La biodiversità  ritmica si palesa di pezzo in pezzo, ma difficilmente lo fa nella singola traccia, ovvero ogni brano assomiglia involontariamente ad un elemento, a una bestia, ma difficilmente all’interno delle stesse tracce ci sono ecosistemi indipendenti. Una delle canzoni più variegate del disco è Girls che, nonostante la linea tipica del dream pop, ha uno spunto ambient molto diverso dagli altri brani.
Il suono sembra muoversi su dei binari tanto insoliti quanto conoscibili, la forza dei pezzi è nella struttura talmente sfumata da sembrare prevedibile e riconoscibile:  Scattered Pieces è sicuramente il brano più duro in questo senso.
Il disco, anche nei momenti più sognanti, ad esempio nel brano “Names, Names, Names”, sembra avere una gabbia esistenziale costruita sopra. La forza è dell’ lp è proprio questa: mostrare quanto anche dei legami, dei vincoli, delle mura di suoni e la staticità  ritmica possano essere confortevoli e pieni di energia.

Who Cares About Tomorrow parla di persone, nomi e volti ma alla fine tra tutto ciò e uno zoo che cosa cambia? è tutta una questione di prospettiva e in una serata di marzo sono andato in un safari da spettatore.

L’immagine offerta è un melting pot tra un codice medievale, un libro di un naturalista e una tela schizzata di Pollock.
In una sera ho riscoperto che tornare in un giardino zoologico con delle cuffie sfondate, almeno metaforicamente, può farci tornare bambini e anche se il disco non parla direttamente di animali, c’è sempre un buon motivo per perdersi in un album tanto primordiale e potente da ricordare la savana, la giungla, uno zoo.