Strana città  New Orleans. Un posto dove sacro e profano si mescolano e ancora oggi convivono fianco a fianco. Joseph Dufilho Jr, primo uomo ad avere la licenza di farmacista in America e il vudù. Scienza e arti magiche. A New Orleans sono tornati Greg Dulli, Jon Skibic, Patrick Keeler, Rick Nelson, Dave Rosser che risponde presente nonostante il cancro e l’immancabile John Curley per registrare il nuovo disco “In Spades”, circondati da un’atmosfera cupa, apocalittica, d’altri tempi. L’atmosfera che Dulli evoca quando canta “Divination/Cleromancy/Comes the card that I refused to see” in “Oriole” ballad grintosa dal retrogusto amaro e uno strano video affidato alla regista Amy Nicole Hood. Hanno coraggio, gli Afghan Whigs. Il coraggio di fare un album non scontato parlando di memoria, di vita e morte, di conti che dovrebbero tornare e non tornano.

Il coraggio di mettere in apertura del disco una canzone spiazzante come “Birdland”: sei mellotron, un violoncello, un organo, la chitarra gentile di Rosser e Greg Dulli che s’interroga sui ricordi di un’infanzia passata in Ohio sognando la New York descritta dalle pagine dei poeti beat. Diabolici Afghan Whigs, che prendono quota con una “Arabian Heights” dal corpo sensuale e dall’anima nera come la magia. Il senso vero di “In Spades” s’inizia a capire con la tormentata “Demon In Profile” che i fantasmi del passato li evoca con un soul soffuso, non gioioso ma teatrale raccontando storie di criminali e coltelli, di desiderio e perdita. Del passato che ritorna parla anche “Toy Automatic” e qui Dulli usa la voce in modo inedito, spingendola al limite del possibile mentre in “Copernicus” si rivedono gli Afghan Whigs più brutali tutti potenza, cuore e spirito maledetto. Uno spirito che è vivo e prepotente anche in “The Spell” e “Light As A Feather” col suo ritmo infernale, nell’onesta “I Got Lost” e in una maestosa “Into The Floor” che sembra uscita da “Congregation” (il giro di note è lo stesso di “Miles Iz Ded” ma rallentato) o “Black Love”.

Gli Afghan Whigs del 2017 sono diversi rispetto ai ventenni di una volta e anche dalla band che nel 2014 era tornata alla carica con “Do To The Beast”. Meno istintivi e più riflessivi sorprendono con un album avventuroso, umorale, ombroso, sinistro, intenso come la copertina disegnata da Christopher Friedman. Un disco che si nasconde dietro tante identità , infinite maschere. Che somiglia un po’ alla scena del ballo a casa Ziegler in “Eyes Wide Shut” di Stanley Kubrick quando fantasia sogni e realtà  diventano tutt’uno in un gioco perverso e imperfetto. Destinato a fare vittime illustri. Parlando di “In Spades” Greg Dulli ci ha tenuto a dire che non è un concept album ma può sembrarlo visto che queste dieci storie sono legate da un filo tenue, che si coglie col tempo, leggendo i testi. C’è tanto da scoprire ascolto dopo ascolto.