I John Canoe sono in tre (Jesse Germanò a chitarra e voce, Mario Bruni a batteria e voce e Stefano Padoan a basso e voce), e sono una delle rare band italiane che fanno un sound costruito su fondamenta garage lo-fi ma riempito e sporcato di ogni tipo di influenza. Sono tre Pollock del suono che prendono tutti i colori della tavolozza sonora e li spruzzano sulla loro tela, in una sorta di spensierata action painting musicale
Quello che ne esce è una musica che sa di estate e profuma di cocco, che sorride e si diverte, che rilassa e rigenera. Un tuffo a bomba in una piscina fresca e colorata.
La band romana sarà in tour per l’Italia e non solo con il loro primo album “Wave Traps”, uscito per Bomba Dischi quest’anno. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Jesse per saperne di più.
Come mai avete scelto questo nome, John Canoe? Perchè lo avete cambiato (la band in origine si chiamava The Sasquatch”, ndr)?
Lo abbiamo cambiato un po’ perchè stavano cambiando il progetto, le idee, i testi, e poi anche perchè era legato alla prima formazione che vedeva un altro componente. Il nome nuovo è uscito insieme al nostro primo EP “ActorBoy”, circa un anno fa.
Con John Canoe volevamo anche renderci più unici, perchè il nome di prima era un po’ troppo generale, c’erano tanti gruppi specialmente americani che avevano questo nome, e quindi perdeva di riconoscibilità .
Per quanto riguarda la sua origine, John Canoe è una festa che si fa il 26 dicembre nei Paesi caraibici, dove ci si prende un giorno per festeggiare la libertà , visto che quei Paesi, tra i quali anche la Giamaica, erano sotto il dominio dei britannici. Quindi c’era questa giornata a dicembre, dopo Natale, dove tutti potevano sentirsi un giorno liberi, festeggiare e suonare tutti insieme. C’erano degli stregoni che mettevano maschere enormi e prendevano per il culo i britannici.
L’idea è bella, di aggregazione, di un giorno di spettacolo dove la gente suona e si diverte: è un concetto che ci sembrava potesse rappresentarci.
E il titolo dell’album, “Wave Traps”, come è nato?
“Wave Traps” nasce senza chissà quali super motivi. “Wave Traps” è una trappola di suono ma è anche, te la faccio semplice, un sistema di intercomunicazione. Una specie di capacitatore che blocca le interferenze nei segnali radio, blocca tutte le interferenze di suono che non sono quelle che vuoi tu. Quindi l’idea è di raccogliere un po’ tutto il suono che volevamo e fare un’enorme trappola di suono per dire “Questo è ciò che ci rappresenta, il suono dei John Canoe“.
E come definiresti il vostro suono?
Il nostro genere musicale essenzialmente è un garage, le nostre influenze vengono tutte da quel mondo, però ovviamente cerchiamo di rivisitarlo a nostro modo. Quindi direi garage-rock, ma nel quale inseriamo qualunque tipo di influenza presa da quello che ascoltiamo in un certo momento, dal pop al rock al punk, al caraibico, alla world music, al jangle pop, qualunque cosa. Ma di base è un garage, puro e semplice, batteria basso e chitarra. Un po’ surf, anche. Poi ognuno lo ascolta e gli dà un genere, secondo me.
Perchè cantate in inglese?
Abbiamo deciso di cantare in inglese prima di tutto perchè il garage ha una matrice inglese, americana, poi perchè io sono australiano per metà .
Non c’è una risposta in realtà sul perchè cantiamo in inglese…perchè no?
I testi poi li scrivo principalmente io, direttamente in inglese, anche se poi ci si confronta e si cambiano alcune cose se non ci convincono.
Per quanto riguarda la composizione musicale e gli arrangiamenti, come lavorate?
Per questo disco di base le idee sono partite per l’80% delle volte da me, poi si arrangia tutto insieme. In questo album ha co-arrangiato anche Marco Fasolo, che è Jennifer Gentle, ed è uscito un bel disco anche per quello, perchè eravamo tante teste a rivedere le cose.
Quanto è stato importante per te essere responsabile del mixaggio dell’album? Lo avresti lasciato fare ad altri o ci tenevi a farlo tu in prima persona?
Sai, ci ho provato, però ci tenevo io a farlo, perchè l’idea di fondo ce l’ avevamo chiara fin dall’inizio. E comunque questo disco l’ho prodotto insieme a Filippo Strang, quindi è stata una cosa di insieme a livello decisionale ma ci tenevo a tenere io alla fine la mano sul mixer.
C’è una canzone del disco a cui sei particolarmente legato?
Sicuramente una di quelle a cui sono più legato è “City of Who”, perchè è stata una canzone nata in studio. Mi sono messo lì a canticchiare un po’ la melodia al momento, affiancato da Marco, e secondo è venuto fuori il pezzo più bello del disco. Ha una grande matrice garage ma lascia spazio a molte cose, ha dei ritmi che tutte le volte che li sento impazzisco, ed è difficile che succeda quando senti le tue cose, perchè a forza di lavorarci sopra a un certo punto cerchi di lasciarle in fretta e non sentirle mai più…invece quel pezzo lì veramente non mi stanco mai di sentirlo. Anche testualmente mi piace molto, perchè parla di questa città di suono ispirata un po’ dalle città di Italo Calvino, queste città fluttuanti di suono dove noi ci immergiamo: attraversiamo un pezzo, cambiandolo in base all’ascolto che ne facciamo.
Poi “Young Fall” perchè è un po’ una ballad atipica, è la prima volta che scriviamo una cosa del genere e ci piace molto. Un altro pezzo ancora potrebbe essere “Hold My Hand”.
Quali sono le vostre fonti di ispirazione, le vostre influenze musicali?
Le influenze sono sicuramente molte dal mondo garage, andando anche indietro ad esempio Kings, Mummies, Gories, tutte le raccolte Nuggets.
Tutti riferimenti che vengono dall’estero, a livello italiano non c’è nessuno..
Eh no, direi di no, certo ci sono molti musicisti che stimiamo e amiamo, ad esempio a me piacciono molto i Verdena, o Jennifer Gentle, però non credo che ci sia qualcosa da cui trarre ispirazione, una matrice completamente italiana.
Avete suonato anche in festival di livello europeo, in primis lo Sziget. Com’è stata questa esperienza?
Molto bella, molto molto divertente, ci torniamo quest’anno, ad agosto saremo di nuovo a suonare lì, sul palco italiano. E’ un festival europeo enorme, dove vedi aggregazione da tutti i Paesi. Certamente c’è una predisposizione verso gli italiani, ce ne sono tanti che vanno lì. E’ stato molto figo e anche una piacevole scoperta: c’è un sacco di gente in Ungheria che è rimasta in contatto con noi e continua a seguirci dopo quella data.
Anche il concerto è stato incredibile: pioveva, pomeriggio, palco enorme, non ci conosceva nessuno…e invece c’era una folla enorme che continuava a ballare con la pioggia, che è rimasta lì con noi, tutti incappucciati…siamo rimasti tutti piacevolmente sorpresi.
Tu lavori nel mondo della musica non solo come musicista ma anche come ingegnere del suono e produttore…che cosa ne pensi del panorama musicale in Italia oggi, sia a livello di risorse economiche che umane?
Quello che posso dire in onestà è che mi sembra che adesso, in questo momento, il fare musica in Italia e in italiano abbia più possibilità di qualche anno fa, è diventata una cosa molto centripeta e non più settoriale. Non c’è più il mainstream dei grandi nomi e il piccolo che continua a fare il suo, tipo Teatro degli Orrori, nella sua nicchia. Adesso l’indie va verso il main, il main verso l’indie, si è incrociato tutto. E finalmente ci sono un certo numero di nomi nuovi, vedo tanti nuovi amici e colleghi che lavorano nel mondo della musica.
Non sono fan di molte cose che escono, tranne alcune…ad esempio Giorgio Poi mi piace molto. E magari non ha ancora lo stesso successo di un Calcutta, però è arrivato a fare cose che prima non erano contemplate, che proprio non si potevano pensare.
C’è grande richiesta musicale quindi, ci si può lavorare tanto. C’è da vedere quanto dura ovviamente, però sicuramente è una grande boccata d’aria fresca.