Ralegh Long nel suo nuovo lavoro è una zia a cui vuoi anche piuttosto bene che decide di regalarti, senza alcun apparente motivo, venti euro che ti arricchiscono la giornata di una gioia contagiosa, almeno fino a quando questi soldi verranno spesi al bar per fare a birrette malinconiche con gli amici.
Il suono in cui sono racchiusi i testi di Ralegh è classico, molto meno spinto rispetto al passato, più standardizzato, ma tutto è perfettamente tondo, esattamente come i cerchietti che la fantomatica zia ti crea intorno alle guance dopo averle tirate, nonostante i vent’anni, nonostante la barba, nonostante il tuo sguardo non più poi molto amichevole nei suoi confronti.
Il pezzo che porta il titolo del disco è un esempio della perfetta trait d’ union tra classico e contemporaneo: la sensazione e grande capacità di Long sta anche nello spezzare questo legame mentale tra passato e presente ed è così che un lavoro molto semplice, ma ben curato, diventa un punto di riferimento tra gli ascolti del 2017.
Sto scrivendo la mia recensione nel giorno del 200 ° anniversario di nascita di Henry David Thoreau, lo scrittore statunitense che forse qualcuno ricorda per “Vita Nei Boschi”, libro adatto a quando ti viene lo slancio per scappare di casa, costruire una capanna, cominciare a piantare patate, zucchine, pomodori e altro, rendersi conto di essere giardinieri di merda e quando lo spirito di adattamento comincia a scarseggiare, tornare a casa, mangiare qualcosa di caldo e buono, insomma cibo vero e mettersi a fantasticare su un libro di un tizio estremamente più interessante di voi (e me); il disco è estremamente adatto ad entrare in una simbiosi mista con Vita Nei Boschi, anche se il disco di Longh è molto più tamarro, in senso positivo, rispetto all’estrema precisione di Thoreau.
Tante volte si cercano dischi che rimangono facilmente interpretabili e traducibili a quello che solitamente ascoltiamo, forse Longh nel suo lavoro rimane prevedibile in alcune soluzioni stilistiche, ma comunque ha un velo di imperscrutabilità che lo rende affascinante, uno degli artisti più completi di questo 2017.
Pezzi come “The Combine” o “Home” sono come quel momento in cui vedi il tuo gatto, bevi il tuo solito latte che da mesi imprecisati è nel frigo o assaggi il polpettone, che in fin dei conti ti ha sempre fatto cagare, ma alcune volte ti sorprende; “Upwards of Summer” è un album senza sorprese e forse è quella la gioia più grande, la bellezza della normalità . Anche per questa giornata in fin dei conti ci siamo accontentati e con un disco del genere si può dormire o magari svegliarsi, convivere senza farsi troppo male, probabilmente senza parlarsi troppo, ma Upwards of Summer è come quella zia e venti euro in tasca è meglio averli. Sempre.