Esattamente dodici mesi fa scrivevo che il Siren Festival aveva brillantemente superato la fase di rodaggio delle prime due edizioni, iniziando così ad esprimere pienamente tutto il proprio potenziale, aiutato in questo da una cornice forse unica in tutto il panorama italiano quale quella fornita della splendida città  di Vasto, vera e propria perla adagiata sull’adriatico che per quattro giorni l’anno si trasforma nella capitale della musica indipendente italiana.
La kermesse abruzzese arriva così alla sua quarta edizione, decidendo di allargare ulteriormente i propri orizzonti e di adempire fino in fondo a quello che dovrebbe essere il compito fondamentale di un festival, ossia quello di scattare una foto, quanto più possibilmente fedele, del periodo storico entro il quale si trova ad operare.

Tocca al nuovo progetto Taxiwars di Tom Barman dei dEUS inaugurare giovedì ventotto il SF 2017, affiancato in questo dal duo italiano (ma di stanza a Londra) dei Malihini, esibizioni queste che si tengono nell’affascinante location del Cortile D’Avalos, che come vedremo più avanti arriverà  quasi ad oscurare il main stage di Piazza del Popolo. La manifestazione entra nel vivo però il giorno successivo, quando il via viene dato ufficialmente con i concerti del palco di Porta San Pietro, sul quale si alterneranno tre dei nomi nuovi più quotati del panorama indie italiano, mi riferisco a Colombre, Andrea Laszlo De Simone e Giorgio Poi, tutti e tre all’esordio ma già  convincenti sul piano della proposta live, e capacissimi di coinvolgere un pubblico che già  conosce perfettamente a memoria tutte le loro canzoni.

Jenny Hval

Bisogna girare come delle trottole da un palco all’altro se non ci si vuole perdere l’arrivo degli act internazionali presenti in cartellone, corro così subito dalla fatina norvegese Jenny Hval, che ci propone i brani tratti dal suo ultimo lavoro intitolato “Blood Bitch”, che segue di un anno l’acclamato “Apocalypse Girl,” album che ha permesso a questa particolarissima artista di farsi apprezzare anche fuori dai confini nazionali.
L’esibizione della Hval è intensa ed elegante, ma forse troppo cerebrale e a tratti un tantino teatrale per essere ospitata sul palco principale della manifestazione. La sua ricetta composta da musica elettronica e folk sperimentale lascia infatti interdetti i presenti e, forse, avrebbe raccolto maggiore attenzione se proposta in un ambiente più raccolto come quello dei Giardini D’Avalos.

Allah-Las

Ben altra l’accoglienza riservata dal popolo del Siren ai californiani Allah-Las, un concerto che richiama la stragrande maggioranza del pubblico presente, che si accalca rendendo addirittura difficoltoso l’ingresso al Cortile D’Avalos. Superato questo piccolo (ma indicativo dello status della band statunitense) inconveniente i ragazzi danno via ad uno show godibilissimo e appassionante, che propone sonorità  psichedeliche anni sessanta, perfettamente miscelate con il pop della brit invasion e un pizzico di garage.

Lo ammetto, sarà  per l’età  ma non sono esattamente un profondo conoscitore del genere Trap e del suo mondo, tuttavia non posso esimermi dal fermarmi a curiosare presso il palco principale per assistere a parte dell’esibizione di Ghali, una delle sensazioni nostrane di questa prima metà  di duemiladiciassette.
Questo “nuovo italiano” rappresenta forse uno dei motivi extramusicali più rilevanti della manifestazione, essendo un bellissimo esempio di come l’integrazione possa passare anche attraverso la musica, e la speranza è che di Ghali nel nostro paese ne escano presto fuori tantissimi altri.
Torno verso il palco precedente per l’esibizione dei Cabaret Voltaire, qui incarnati dal solo Richard H. Kirk alla console, il quale propone un set potente e ossessivo, che però alla lunga risulta alquanto monocorde e pesante (in tutti i sensi), mostrando così tutti i limiti di fantasia del genere industrial.

Tutt’altra musica sul main stage con gli attesissimi Baustelle. Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi e Claudio Brasini sono qui per presentarci il loro ultimo lavoro intitolato “L’amore e la violenza” e Piazza del Popolo è stipata di gente fino all’inverosimile.
Disco “oscenamente pop” (parole della stessa band) l’ultimogenito dei tre musicisti toscani, qui accompagnati da una nutrita backing band che ben asseconda la loro quotidiana ricerca di un pop elegante e mai banale, una tensione continua questa resa perfettamente anche dal vivo con un set che unisce in maniera convincente vecchi e nuovi successi in un flusso che coinvolge tutto il pubblico presente.
Ed è davvero un bel best of quello che Bianconi e soci regalano agli spettatori, che va dagli ultimi singoli (“Amanda Lear”, “Il Vangelo di Giovanni”, “Basso e batteria”) alle grandi hit tratte dai dischi precedenti, con pezzi come “Charlie fa surf” e “Un romantico a Milano” particolarmente graditi. La vera sorpresa finale è però rappresentata da un’inattesa cover di “Henry Lee” di Nick Cave & The Bad Seeds, pezzo con il quale i Baustelle ci salutano.

La notte del Siren non finisce qui naturalmente, mi dirigo di nuovo verso il Cortile D’Avalos (per l’occasione denominato Jager Music Stage) per il dj set di Apparat, ovvero quel Sascha Ring divenuto famoso come voce dei tedeschi Moderat.
E anche stavolta il calore è tale che come in precedenza con gli Allah-Las è davvero difficile entrare. Una volta dentro il producer teutonico tira fuori un set strepitoso, che alterna remix di Radiohead e Bon Iver ad alcuni successi della band madre, posti strategicamente alla fine dell’esibizione come in un ideale saluto, dato che i Moderat hanno annunciato da pochissimi giorni il loro addio alle scene.

Siren Festival giorno due, per me il più atteso per tante ragioni, tra cui quella della presenza degli Arab Strap. Procediamo però per gradi e iniziamo dal palco di Porta San Pietro, dove i giovanissimi ed acerbi Gomma ci spiegano che il rock non è roba per cinquantenni imbolsiti, come da tante parti cercano di spiegarci certi vecchi (loro sì) soloni.
Sul palco di Piazza del Popolo intanto va in scena l’esibizione della vera sorpresa di questa quarta edizione del SF, mi riferisco all’israeliana Noga Erez, rapper elettronica per sua stessa definizione. Questa giovane sperimentatrice arriva da Tel Aviv e segue gli stessi percorsi tracciati in precedenza da colleghe ben più famose come M.I.A. e FKA Twigs: un nome il suo da segnare sul proprio taccuino, per poter verificare un giorno le future evoluzioni di questa coraggiosa artista proveniente da un paese dove far musica non è sempre facile.
Come vi avevo detto qualche riga più sopra il palco del Cortile D’Avalos quest’anno ha nettamente battuto il ben più titolato main stage, a dimostrazione di questo basta verificare il numero di persone che si è di nuovo accalcato al suo interno per Carl Brave X Franco 126, duo romano che potrebbe scherzosamente essere definito come la risposta ai britannici Sleaford Moods ma con i testi scritti dai The Pills.

E il live a cui assisto ha quasi il sapore della consacrazione per questi due tipacci tutti “bire” e nottate in giro a far caciara, i cui testi sono stati rapidamente mandati giù a memoria da tutti i pischelli presenti, attestando in questo modo che il successo del loro album intitolato “Polaroid” potrebbe ben presto raggiungere livelli Calcuttiani.
Altra bella sorpresa è quella rappresentata da Obaro Ejimiwe, meglio conosciuto come Ghostpoet, che con la sua band vince il premio dell’artista più stiloso del festival. Moderno crooner prestato ad un hip hop per nulla convenzionale che spesso si veste di rock ed elettronica, Ghostpoet riesce nell’intento di catturare anche quell’ampia fetta di pubblico che non conosce la sua musica, portandolo velocemente dalla sua parte e facendolo ballare con l’energia dei suoi raffinati groove.

Arab Strap

Ed arriva finalmente il momento di una delle band più attese della manifestazione, gli Arab Strap portano nel Cortile D’Avalos una ventata di freschezza nonostante l’eleva calura, combattuta da Aidan Moffat con numerose lattine di birra Moretti.
E non sembrano per niente essere passati undici anni da quando i due scozzesi hanno deciso di prendere strade diverse, anzi, quella che propongono è un’esibizione serrata, che alla malinconia e alla paranoia evocate dalla voce di Moffat aggiunge tanta elettricità  (garantita da un Malcolm Middleton in splendida forma) e un fervore decisamente rock, che uniti alle ritmiche sincopate della cassa dritta di pezzi come “The first big weekend” contribuiscono a creare un set energico e danzereccio.

E si balla anche al main stage, Piazza del Popolo è completamente gremita per il live finale, proprio come il giorno precedente, e chi si attarda rischia di assistere all’esibizione di Trentemøller da distanze siderali.
Il producer danese si presenta con una vera e propria rockband, tenendo così fede alle impressioni lasciate da quel “Fixion” uscito lo scorso autunno che vedeva il nostro allontanarsi dalle ritmiche del dancefloor per abbracciare atmosfere più vicine alla new wave e al post punk.
Niente a che vedere quindi con gli algidi paesaggi sintetici dipinti dall’album “Lost” del duemilatredici, tuttavia la formula applicata questa volta è vincente, e brani come “River in me”, seppur orfano della voce di Jehnny Beth delle Savages (menzione speciale per la vocalist Marie Fisker per aver retto perfettamente il confronto) e “Come Undone”, fanno letteralmente esplodere il pubblico d’entusiasmo. Spettacolare infine il catartico finale, che vede la band proporre addirittura una versione live del remix che Trentemøller ha rilasciato qualche anno fa di “What else is there?” dei Royksopp, brano che manda in delirio i presenti, rispedendoci tutti a casa stanchi ma soddisfatti.

Siamo giunti ai saluti conclusivi con il tradizionale concerto d’arrivederci della domenica mattina, rituale che questa volta si tiene all’interno della suggestiva scenografia della Chiesa di Santissima Maria del Carmine, venue che vede come protagonista assoluto Jens Lekman.
E il raffinato musicista svedese ci saluta nel migliore dei modi, regalandoci alcune delle sue composizioni più amate(in scaletta anche la celeberrima “Black Cab”e la più recente “What’s that perfume that your wear?”), armato esclusivamente della sua chitarra e di qualche base, riuscendo con un set spartano ma emozionante a riassumere lo spirito di due giorni indimenticabili.

Al netto di alcuni difetti marginali (qualche concomitanza di troppo rispetto alle scorse edizione, la grande difficoltà  nel reperire il merchandising delle band in cartellone), il Siren Festival oggi rappresenta una realtà  che naviga a vele spiegate verso un radioso futuro, è una manifestazione quella vastese che ormai si è lasciata alle spalle ogni incertezza iniziale e che ha proprio tutte le carte in regola per arrivare, un giorno non troppo lontano, a non avere più nulla da invidiare ai grandi festival europei da cui trae ispirazione.