You can climb a mountain
You can swim the sea
You can jump into the fire
But you’ll never be free

Una delle ultime cose strillate da James Murphy durante l’ormai celeberrimo concerto-addio monstre al Madison Square Garden del 2011 si è rivelata essere una premonizione. Murphy ha provato a liberarsi degli LCD Soundsystem, ha aperto un wine bar a Brooklyn, avuto un figlio, cercato in tutti i modi di convincere le autorità  newyorkesi a donare una nuova colonna sonora alla metropolitana della city, prodotto gli Arcade Fire e contribuito anche se in minima parte a Blackstar di David Bowie, suggerendo un cambio di accordo e suonando la batteria in un pezzo. Ma non era abbastanza.
L’ha detto lui stesso al Guardian qualche giorno fa, al termine di una spiegazione del perchè avesse deciso di lasciare la (per lui troppo) democratica band di Bowie: guidare gli LCD is the only way I can work. Se non altro, quelle sporadiche sessioni hanno permesso al nostro di convincersi a tornare sui suoi passi e arrendersi alla sua vocazione. Vai a vedere infatti che alla lista degli ultimi regali del Duca Bianco al mondo deve andare ad ascriversi pure la reunion di James e soci. L’idea di riformare la band mi mette a disagio, piagnucolò James. Bene, dovrebbe metterti a disagio, lo spronò David.

You should be unconfortable è anche l’ultimo verso di “other voices”, secondo pezzo in scaletta di questo “American Dream” che segna il ritorno sulle scene della band newyorkese a sette anni dall’ultimo sforzo in studio, This is Happening. Un disco che si porta addosso il non trascurabile fardello di andare a riprendere le fila di un discorso singolare interrotto dopo tre dischi pressochè iconici, quello di suonare ancora rilevanti per giustificare un ritorno auspicato da molti ma visto in mala fede da altrettanti, in particolare coloro che avevano investito tutti i propri averi per diventare testimoni di quelli si credevano essere gli ultimi show della band. Un bel casino, insomma. Tanto da spingere Murphy stesso a prodigarsi in un lungo post su Facebook in cui, senza mezzi termini, si scusava di tutto e si diceva conscio della responsabilità  di partorire qualcosa di unico.

Ebbene, “American Dream” si dimostra un il ritorno perfetto per una serie di ragioni, tanto epico nella gestazione e nei suoni quanto disperatamente confessionale testi alla mano.
Gli LCD Soundsystem sono sempre stati una band meta, tanto nell’omaggiare i propri idoli quanto nello scrivere canzoni sul come scrivere canzoni (basti andare a riprendere “Losing My Edge” e “You Wanted a Hit”). In “American Dream”, Murphy e compagnia non sono da meno.

A livello sonoro, è un orgasmo uditivo frutto della ripresa del sound dei primi LCD tuttavia mentenuto in controluce contro una filigrana essenzialmente rock e scurito da influenze mai così marcatamente new wave. Nel calderone ci finiscono soprattutto i Talking Heads tribali di “Fear of Music” e “Remain in Light” e la coppia EnoByrne di “My Life in the Bush of Ghosts” (“other voices”, “change yr mind”, “emotional haircut”), ma anche lo stesso Brian Eno di “Another Green World” (l’intro di “call the police”, ciò che più si avvicina alla spinta innodica rock di “All My Friends”), Cure e Siouxie (“i used to”) e ovviamente il Bowie berlinese (ma non solo).

Ma ridurre il tutto ad una questione di rimandi sarebbe ingrato. Ciò che più colpisce lungo le dieci tracce dell’album è la capacità  di raggiungere il climax emotivo e sonoro con misura. La carne al fuoco è tanta, ma Murphy è eccezionale nel dosare tutti gli ingredienti senza debordare. Non un enorme diamante grezzo e spigoloso dunque, ma un monolite levigato e lucente. Si pensi al singolo “tonite”, che invece di esplodere chiude con una classica, dolceamara riflessione sull’invecchiamento, grande pallino del frontman: So you will be badgered and taunted and told that / You’re missing a party that you’ll never get over / You hate the idea that you’re wasting your youth / That you stood in the background oh until you got older / But that’s all lies, that’s all lies.
Oppure alla potentissima “how do you sleep?”, nove minuti in cui James rievoca la diatriba con Tim Goldsworthy, co-fondatore della DFA, sotto massicci fendenti di synth.
Oppure ancora al lento ma inesorabile crescendo di “oh baby”, uno dei tanti pezzi che forse testimoniano il flusso dei pensieri di Murphy sul riformare il gruppo – alla categoria potremmo ascriverci anche “other voices”, “emotional haircut” e soprattutto “american dream”, con quel verso strappalacrime So you kiss and you clutch but you can’t fight that feeling / That your one true love is just awaiting your big meeting.

Un altro dei capisaldi della poetica di Murphy è quello del rimpianto. La lunghissima chi-usura di “black screen” è una commovente lettera allo Starman in cui James ritorna sulla decisione di lasciare i lavori su “Blackstar” non senza rimpianto: Your quick replies made me hide / That I had fear in the room / So I stopped turning up / My hands kept pushing down in my pockets / I’m bad with people things / But I should have tried more.
E la title track ha spinto l’utente di genius.com theshanegraysonlp a lasciare l’esilarante quanto pregnante commento ma che cazzo james, ho 22 anni, non dovrei sentirmi un quarantaduenne pieno di rimpianti, ma la stessa esistenza di American Dream testimonia come James Murphy i rimpianti questa volta li abbia messi da parte.

I dibattiti sulla posizione che “American Dream” occupi nella gerarchia del canone LCD lasciano il tempo che trovano, anche se qui non vi è davvero nulla da invidiare ai predecessori, anzi. Murphy e i suoi sono tornati con qualcosa di più accorato, profondo e oscuro di tutto quanto offerto prima. Come se non bastasse, il prossimo probabile rilascio in 12″ di “pulse (v.1)” (ora in download gratuito sul sito della band) lascia sperare che i giochi siano appena (ri)cominciati. Sembra tutto troppo bello, eppure”…

Photo: Ruvan Wijesooriya