Diciamocelo chiaramente, sviscerare un qualsivoglia album del signor Beck Hansen con la pretesa che questo possa, in qualche modo, poter essere esplicativo di tutta la sua opera è una scemenza di dimensioni bibliche; no, ognuno di essi è parte di un mosaico multiforme, in cui tutto quello che sappiamo dell’autore di “Odelay” vale solo fino al disco successivo.

Tutto questo è ancor più vero per “Sea change”, forse il lavoro più personale di Beck, album intorno al quale quindici anni fa si disse tutto e il contrario di tutto (vi risparmio tutte le disquisizioni sull’allora fine della relazione con Winona Ryder, fatto che ispirò alcuni dei brani in scaletta, così come evito di sottolineare le panzane che uscirono a suo tempo sui presunti simbolismi riguardanti Scientology presenti secondo alcuni all’interno delle liriche dell’album, di queste cose è pieno il web e se vi interessano potete trovarle senza nessuna fatica.)

Ora, trovatemi un altro artista capace di passare con questa naturalezza dal funky di fine millennio di “Midnight Vultures” all’afflato cantautoriale di questo gioiello di inizio anni zero, e senza perdere un pizzico di credibilità  per giunta! Beck ci riuscì senza nessuna difficoltà , sfornando un album che in quel lontano duemiladue si giocava la medaglia d’oro di disco dell’anno con titoli quali “Yankee Hotel Foxtrot” dei Wilco, “Out of season” di Beth Gibbons, “Neon Golden” dei Notwist, “Turn on the bright lights” degli Interpol e tanti altri classici pezzi da novanta.

Prodotto dal sesto Radiohead Nigel Godrich, “Sea Change” è un lavoro stratificato, che si rivela appieno dopo numerosi ascolti, che solo ad un fruitore distratto e frettoloso può apparire come un disco dimesso e contemplativo, in verità  queste dodici tracce hanno strutture complesse e ricche di spunti, in cui si ritrovano tutti gli elementi caratteristici della musica di Beck, benchè dosati e distribuiti con parsimonia per tutta la durata dei suoi cinquantadue minuti.
Poco lo-fi a questo giro, tanti archi a fare da contrappunto alla voce sempre in primissimo di Beck in pezzi intimi e struggenti (“Paper tiger”, “Lonesome Tears”, che chiama direttamente in causa gli AIR), ai quali si affiancano ballate di chiara ispirazione Younghiana (“At the end of the day”, “It’s all in you mind”), o espliciti omaggi a Nick Drake (“Round the band”, “Already dead”), passando per la malinconica invocazione d’amore di “Last Cause” e il finale alt country di “Side of the road”.
Dicevo all’inizio di queste righe di come nessun disco di Beck può essere ritenuto rappresentativo in toto della sua arte e di come questa si esprima in maniera sempre cangiante e mai uguale a sè stessa(ma come vedremo più avanti…), e infatti il nostro decide di cambiare di nuovo le carte in tavola tre anni dopo con “Guero”. L’erede di “Sea Change” si presenta con un singolo, “E-pro”, che si inserisce pienamente nel suono del periodo, il duemilacinque vede infatti fiorire tutto quel movimento Electro Rock e Punk Funk che ha in gruppi ed artisti come Peaches, Bloc Party, Rapture, Lcd Soundsytem, Le Tigre, Yeah Yeah Yeahs, Klaxons i protagonisti assoluti di una stagione eccitante e danzareccia quanto breve.
Sarà  l’età , oppure la fine di una nuova relazione, chissà , ma Beck decide di pubblicare una specie di seguito di “Sea Change”: nel duemilaquattordici arriva “Morning Phase”, e quello che ascoltiamo è una sorta di nuovo viaggio introspettivo intrapreso nuovamente con l’armamentario di dodici anni prima, forse appena appena più cupo e a tratti meno riuscito, ma in fondo una “Last cause” non la si scrive tutti i giorni.

“Morning Phase” suo malgrado si rende protagonista di uno degli episodi extramusicali più divertenti di questi ultimi anni, ovvero l’incidente verificatosi durante i Grammy Awards 2015, che ha come protagonisti Beck e Kenye West. A quest’ultimo non andò infatti per niente giù il fatto che l’album in questione vincesse il premio di disco dell’anno. Anche qui vi rimando alla rete, il video delle accese rimostranze del rapper di Atlanta è disponibile ovunque ma vale la pena di rivederlo, soprattutto per ammirare la maestria e la signorilità  con cui Beck gestì l’incresciosa situazione.
Ma questa è un’altra storia, lo scricciolo biondo che negli anni novanta giocava con l’elettronica, il rap e con tutta l’estetica lo-fi oggi è un raffinato autore di canzoni, capace di cambiare pelle a suo piacimento, che con “Sea Change” ci ha regalato pezzi che entrano di prepotenza nel nostro immaginario collettivo sentimentale (un po’ come quelli contenuti in “Neon Golden” dei Notwist, guarda caso altro album targato duemiladue), e che prestissimo, anzi già  con il mese prossimo, tornerà  a stupirci con un nuovo attesissimo lavoro.

Beck -“Sea Change”
Data di pubblicazione: 24 settembre 2002
Tracce: 12
Durata: 52:24
Etichetta: Geffen Records

Tracklist:
1. The Golden Age
2. Paper Tiger
3. Guess I’m Doing Fine
4. Lonesome Tears
5. Lost Cause
6. End of the Day
7. It’s All in Your Mind
8. Round the Bend
9. Already Dead
10. Sunday Sun
11. Little One
12. Side of the Road