Anche se ha iniziato a pubblicare fin dal 2010 ed è oggi al suo quarto album, il primo incontro con la musica di questa polistrumentista, cantante e compositrice svedese l’ho avuto solo quando, a ottobre 2016, all’Orion di Roma, ci introdusse con un ottimo opening ad un live degli Swans.
L’impatto fu immediatamente rivelatore, una figura di rabbia eterea, fatta di nervi e poesia, drammaticità e leggerezza.
Grata agli Swans per averla portata con sè in tour permettendoci di conoscerla, mi ero ripromessa di approfondire, ma solo ora lo sto facendo davvero per potervene parlare.
D’altra parte, mi sembra che per quanto riguarda il pubblico italiano, e in parte forse internazionale, la sua notorietà stia esplodendo proprio adesso dopo una lenta emersione.
Parto subito dalla conclusione, è consigliatissimo ascoltarla, così come vederla dal vivo.
La sua intensità sembra morbida ma taglia come una lama risplendnte fin dall’inizio e il progressivo incedere di violini, organo, synth e della straordinaria voce, chiara e netta come il guscio di un seme fatto per piantarsi in profondità , penetrano a mettere radici per poi estendersi verso il cielo in ampie ed alte ramificazioni di emozioni e sensazioni. E’ piuttosto lungo questo brano iniziale “The truth, the glow, the fall”, quasi a dire che non bisogna avere fretta nell’addentrarsi ed esplorare gli abissi promettenti e inquietanti che ci si offrono.
Di frequente l’incedere dei ritmi frena e si inabissa, lasciando galleggiare ed espandere in primo piano ora i suoni degli archi, ora dell’organo o delle liriche, e poi si rimette in marcia, con una struttura compositiva che sembra molto libera, certamente non canonica o prevedibile.
“The mysterious vanishing of Electra” è più ritmica e chitarristica, la voce gioca su melodie che sembrano di per sè innocue ma nel ripeterle ossessivamente si altera, si incupisce, si arrochisce, si dibatte in tutte le direzioni, sale ad altezze lancinanti, come una forza in catene che cerca furiosamente di liberarsi.
“Ugly and vengeful” è di una bellezza trascinante, molto meditativa e avvolta attorno alla voce per lunghi minuti iniziali, finchè non diventa campo di battaglia di
percussioni incalzanti su cui urlare con rabbia, a cavalcioni di ondate di note in accelerazione come le rapide di una cascata.
In totale omaggio all’organo del ‘900 suonato e registrato nella Marble Church di Copenaghen, “Marble Eye”, interamente strumentale inframmezza l’album con grazia e crea lo spazio di attesa per tornare ad ascoltare la voce, nel lirismo sognante della conclusiva “Källans à…teruppstà¥ndelse”.
I brani rasentano la perfezione dalla prima all’ultima nota, parlano all’intelletto e alle emozioni e in qualche modo al corpo, dimora di silenziosi misteri, senza remore o incertezze. Addensano l’atmosfera intorno alla splendida voce nei momenti più cadenzati, la agitano in tempesta in quelli più incalzanti, a volte quasi tribali, a volte in rincorse strumentali di sentore progressive.
L’organo del 900 nella penombra (immagino) della Marble Church suonato da lei è esaltato in una gamma espressiva di cui forse non aveva mai prima riempito il silenzio.
Per modestia sull’oggettività del mio giudizio non avevo mai scritto capolavoro, ma forse devo cogliere l’occasione in questo caso, confortata anche dall’impatto che il disco sta suscitando, unendo nell’entusiasmo ascoltatori di background e gusti anche lontani.