Cosa ci facevano sabato 19 maggio Cate Blanchet, Kristen Stewart, Lèa Seydoux, Denis Villeneuve, Andre௠Zviaguintsev, Robert Guèdiguian, Khadja Nin, Chang Chen, Ava DuVernay, Sting, Shaggy, Edouard Baer, Roberto Benigni, Chiara Mastroianni, Terry Gilliam, Adam Driver, Hirokazu Kore-eda, Spike Lee, Gary Oldman, Asia Argento, Matteo Garrone, Alice Rohrwacher, Pawel Pawlinowski, Marcello Fonte, Benicio del Toro, Virginie Ledoyen, Rossy de Palma ed un altro migliaio di attori registi e produttori cinematografici sulle scale del Grand Theatre Lumiere di Cannes?
Erano ciascuno una delle tante tessere che compongono il meraviglioso mosaico che costituisce il mondo del cinema e lo celebravano all’evento più importante collegato a questa arte così amata: Il Festival di Cannes.
Due sole tessere mancavano lasciando incompleta l’opera d’arte: quella del regista iraniano Jafar Panahi che ormai da otto anni non può lasciare il proprio paese con l’accusa, ingiusta, di cospirazione nei confronti del governo e quella di Kirill Serebrennikov incarcerato in Russia con l’accusa di aver sottratto dei soldi allo stato a favore del teatro da lui diretto.
Ma ritorniamo indietro di dieci giorni per vedere come siamo arrivati a questo momento”…
L’apertura del settantunesimo Festival di Cannes è stata affidata al film “Everybody Knows” del regista iraniano Ashgar Farhadi uno dei nomi più legati a questa manifestazione e alla quale deve moltissimo.
Da giorni lo si può incontrare mentre passeggia per la cittadina francese, solo o accompagnato da pochi amici.
Farhadi non si sottrae mai ad una chiacchierata con le persone che lo riconoscono, è un uomo sempre sorridente, estremamente cortese, una persona vera.
Dietro questo suo modo molto semplice di essere si nasconde il segreto che lo ha fatto diventare uno dei più importanti registi al mondo in un tempo relativamente breve: Ashgar Farhadi ama le persone, le ascolta e sa raccontare le loro storie.
Per questo film si è trasferito in Spagna perchè sentiva il bisogno di conoscere meglio un mondo lontano dal suo, per poterlo raccontare.
Aveva fatto lo stesso con la Francia quando aveva girato “Il passato” con Berenice Bejo.
Per “Everybody Knows” si è affidato a tre veri e propri mostri della recitazione: Javier Bardem, Penelope Cruz e Ricardo Darin.
Il film racconta un episodio nella vita di una famiglia spagnola devastata dal rapimento di Irene,(Carla Campra), una adolescente figlia di Laura (Penelope Cruz).
La famiglia di Laura vive da anni in Argentina e tutti a casa pensano che abbia fatto fortuna.
L’occasione del rientro in Spagna di Laura insieme ai suoi due figli è il matrimonio di una delle due sorelle rimaste nel paesino della Mancha insieme a tutta la famiglia.
Durante la notte dei festeggiamenti a causa di un temporale la casa resta senza luce e Laura si accorge che Irene, la figlia maggiore, è sparita dalla sua stanza.
Inizia la tortura degli SMS con cui i rapitori comunicano le proprie richieste alla famiglia e Laura si rivolge subito a Paco (Javier Bardem), suo primo e mai dimenticato amore, nel disperato tentativo di ritrovarla.
Costretti a non contattare la polizia per non rischiare la vita di Irene, Laura e Paco iniziano la loro ricerca della verità ed i sospetti cadono su tutti i membri della famiglia perchè ognuno di loro potrebbe essere il responsabile del rapimento. Anche Alejandro il marito di Laura interpretato da Ricardo Darin che non era partito per il matrimonio, appena arrivato in Spagna, passa nelle maglie del sospetto.
Inizia così il gioco in cui Farhadi è straordinariamente bravo a raccontare il passato partendo dal presente.
Questo è l’elemento fondante di tutta la sua opera.
Il matrimonio e il rapimento sono la tela su cui Farhadi dipinge lentamente i propri personaggi. Li arricchisce di volta in volta di sfumature, in un crescendo di informazioni legate al loro passato per trascinarci in una trama da film giallo dove la soluzione è meno importante della modalità con cui ci siamo arrivati.
Anche se probabilmente siamo di fronte ad uno dei film meno riusciti del regista iraniano, “Everybody knows” ha una trama solida e parte da un ottima idea
riuscendo, anche se a tratti, a portare allo spettatore il suo messaggio cardine: noi siamo il nostro passato.
La cosa sorprendente è stata la critica severa da parte della stampa spagnola che sembra essere quella a cui il film è piaciuto meno.
Il secondo giorno del festival è stato il trionfo del bianco e nero perchè il Grande Theatre Lumiere, sede delle proiezioni dei film in competizione ufficiale ha visto arrivare il film “Leto” del regista russo Kirill Serebrennikov uno dei favoriti nella competizione ufficiale, e “Cold War” capolavoro del regista polacco Pawel Pawlikowski, film che fino alla proiezione di “Dogman” di Matteo Garrone è sembrato il mattatore assoluto della manifestazione.
“Leto” racconta un’estate nella vita di Viktor Coj il leader dei Kino, la band di culto russa poco prima di diventare una star.
Una storia ispirata a fatti veri accaduti in Russia negli anni settanta che tenta forse in un tempo troppo lungo (più di due ore) di raccontare una scena punk- rock di Sanpietroburgo quasi sconosciuta all’occidente e alla quale faceva sempre l’occhiolino se non addirittura ne copiava movenze e stile.
Un bel film, forse troppo formale, poco sovversivo per quanto in realtà ci si potesse aspettare da un regista così apertamente anti- Putin ma assolutamente godibile.
“Cold war” invece è un vero e proprio gioiello che arriva dal regista premio Oscar con il precedente “Ida”.
Anche in “Cold war”, come nel suo precedente film siamo in Polonia, nel 1949 in piena guerra fredda ed i protagonisti Wictor e Zula interpretati da Tomasz Kot e Joanna Kulig sono due musicisti, un pianista ed una cantante, che si innamorano perdutamente l’uno dell’altra ma vivranno una storia impossibile a causa appunto della guerra fredda, nelle macerie della Polonia del dopoguerra.
Wictor e Lula hanno una concezione opposta della vita ma si attraggono in modo morboso e vivranno un amore impossibile come in un romanzo ottocentesco.
Girato in formato 4:3 in bianco e nero con una regia perfetta, con inquadrature straordinarie ed interpretazioni da capogiro.
Un film di cui non ci si può non innamorare dal primo minuto.
Nella sezione parallela, “Un certain regard” l’apertura della competizione veniva affidato al regista
Ucraino-russo Sergei Lotzintsa con il suo “Donbass”
Possiamo dire che il denominatore comune della giornata è stato quello di una serie di attacchi al regime sovietico.
Il primo era quello contenuto dal messaggio contenuto nel film di Lotznitsa il secondo quello portato dal delegato generale del festival Thierry Fremaux che proprio nella sala “Debussy” annunciava che purtroppo Kirill Serebrennikov non sarebbe stato presente al festival per i problemi con la legge in Russia in quanto è stato arrestato a Mosca con l’accusa pretestuosa di truffa in quanto sospettato di aver sottratto un milione di euro ai fondi governativi per lo spettacolo.
La cosa comica è stata che Vladimir Putin avrebbe scritto al festival che purtroppo in Russia essendo il potere politico separato da quello giudiziario (“…) nè lui nè altri anche volendolo avrebbero potuto permettere al regista di abbandonare il paese.
“Donbass” racconta le menzogne della propaganda russa attraverso una serie di episodi nell’Ucraina in piena guerra civile.
Lo stesso Loznitsa parlando con Fremaux aveva detto che non sapeva bene come spiegare la sua situazione personale dovuta propria nazionalità ( metà russo, metà ucraino ) per cui aveva concluso dicendo che non voleva nemmeno provare a spiegarlo per paura che il suo interlocutore non avrebbe capito.
Grande risata del pubblico.
L’Ucraina è sicuramente uno dei paesi più mistificati grazie alla propaganda da entrambe le parti ( quella della Russia, il paese invasore e quella dell’Ucraina ) che dal 2004 vedeancora una situazione conflittuale.
“Donbass” quindi è un film politico che racconta quello che quotidianamente è successo e ancora oggi succede nella parte più ad est del paese e che mette in ridicolo i piccoli poteri che alcuni paramilitari si sono attributi per vessare altri concittadini.
La guerra non è altro che uno specchio di quello che sono le bassezze degli esseri umani ed il quadro dipinto da Loznitza è desolante: un mondo cupo e apparentemente senza speranza dove gli uomini cercano di trarre sempre un vantaggio a discapito di altri uomini derubandoli, deridendoli ed uccidendoli.
Loznitza pare essersi ispirato ad un video amatoriale visto alcuni anni fa per sviluppare questo film che è strutturato in una serie di episodi tutti sganciati tra di loro ma uniti dal senso della prevaricazione e dell’inganno ed anche da uno stile, quello proprio del regista, ottenuto, filmando con una telecamera sempre in leggero movimento che lascia la sensazione di un opera a metà tra la cronaca documentaristica ed la finzione.
Loznitza conosce bene la tecnica cinematografica anzi la sua forza sta proprio nella capacità di filmare in un modo estremamente rigoroso e potente, qui invece preferisce sporcare leggermente le immagini con una camera a mano sempre vicina agli attori che come delle maschere sono usati come simboli grotteschi meschini, avidi e prevaricatori.
Il film inizia con una scena in cui degli attori fanno una finta intervista per la televisione pretendendo di essere dei passanti che hanno assistito ad un attentato in un bus e prosegue con altri 12 episodi il cui denominatore comune è sempre lo stesso.
Da Loznitza che è già definito un maestro del cinema forse sarebbe stato lecito aspettarsi qualcosa di più ed anche qualcosa di meno per quanto riguarda la lunghezza del film che a tratti ricorda la seconda e disastrosa parte di “A gentle creature” presentato sempre qui a Cannes lo scorso anno.
Il terzo giorno del Festival è stato quello di Jean Luc Godard il grande regista della Nouvelle Vague che negli anni sessanta è stato uno dei grandi innovatori del cinema francese insieme a Francosi Truffaut, Jacques Rivette Claude Chabrol ed Eric Rohmer.
Il poster ufficiale del festival questo anno era un omaggio proprio a Jean Luc Godard con una splendida immagine, quella del bacio tra Jean Paul Belmondo e Anna Karina in uno scatto realizzato dal fotografo George Pierre per il film del 1965 “Il bandito delle 11” ed opportunamente modificato per farne l’affiche del festival.
Godard era presente in competizione ufficiale con “Le livre d’image” un opera senza nessuna scena girata da lui, un lavoro meticoloso di ricostruzione-destrutturazione di immagini che sono usate come un vero e proprio bombardamento per gli occhi dello spettatore.
Il film è diviso in cinque capitoli come le cinque dita di una mano di cui tesse l’elogio come strumento di lavoro capace di trasformare il pensiero in un opera compiuta.
Cinque capitoli che hanno un percorso temporale partendo dalle prime immagini in movimento fino ad arrivare alle immagini di telegiornali passando per grandi film del passato che hanno segnato l’immaginario collettivo. Jean Vigo, Pierpaolo Pasolini, Arthur Rimbaud, Johnny Guitar, Max Ophuls, convergono tutti in un orgia visiva senza soluzione di continuità .
Quella di Godard è una ricerca sul linguaggio cinematografico ed in generale dell’immagine oltre che della musica e della parola e non ha una trama vera e propria.
“Le livre d’image” è tutto e niente, può essere esaltato e disprezzato, ritenuto un capolavoro di un maestro visionario ed una ridicola operazione di assemblaggio che qualsiasi studente di montaggio se non un ragazzino che sa usare il computer avrebbe potuto fare.
L’immagine così (mal)trattata perde quasi il suo significato ed assume un valore puramente simbolico come un invito alla riflessione; in effetti per quasi tutto il tempo del film la mente spazia verso le suggestioni evocate dalla immagine precedente perdendo completamente il filo narrativo.
Lo spettatore è sconcertato da questo vero e proprio Blob cinematografico, al punto che ci si domanda se un opera così anti-cinema possa avere posto al festival di Cannes e se sarebbe stata accettata se non avesse il bollino magico con il nome di Godard.
Domenica invece è stato il giorno del ritorno del grande regista americano Spike Lee con “Black Klansman” una commedia feroce e scatenata adattata dall’autobiografia di Ron Stallworth, un agente di polizia che dopo pochi giorni dalla sua assunzione chiede con successo ai propri superiori di essere assegnato al reparto investigativo.
“Sono nato pronto” è il motto per giustificare la sua ansia di emergere nel piccolo ufficio di polizia di Colorado Springs.
E’ una stupefacente storia vera, quasi improbabile per quanto sembra impossibile nella sua realizzazione.
Ron, interpretato da John David Washington ( che ricorda Shaft ), è intelligente, intraprendente e in tutta autonomia inizia ad investigare sul Ku Klux Clan che ha delle mire su Colorado Springs; telefona ad un numero letto su un annuncio sul giornale locale fingendosi interessato ad avere un contatto per infiltrarsi.
Nulla di nuovo no? Ah si qualcosa di nuovo c’è”…Ron Stallworth è un giovane afro-americano.
Ecco che arriva in soccorso il suo collega Flip Zimmerman, (Adam Driver) che prende il suo posto fisico per gli incontri con i suprematisti bianchi che sono convinti di avere davanti un solido alleato per la loro folle guerra raziale.
Inizia così un teatrino per cui Ron gestisce le telefonate con i vari membri del Ku Klux Clan e Flip finge di essere la stessa persona con cui sono al telefono per entrare in contatto con loro.
Il film che sembra girato a quattro mani con Quentin Tarantino ( il paragone con Jackie Brown è scontato ma calzante ) o forse a otto mani con i fratelli Coen è uno dei migliori di Spike Lee, un film politico e divertente allo stesso tempo dove il regista riesce grazie al suo sguardo così personale ed intelligente ad aggiungere sempre qualcosa di nuovo ad un argomento così tanto rappresentato.
Il film tocca un nervo scoperto nella cultura americana e lo fa in modo potente senza dimenticare di essere spiritoso ed è questo il miglior pregio del film che come era stato per “Fai la cosa giusta” riusciva a parlare al grande pubblico trattando argomenti sociali importanti.
“Blackkklansman” usa gli anni settanta per ricordarci il nostro presente in cui il presidente americano Donald Trump senza nessuna vergogna era andato in televisione sostenendo che nessun suprematista bianco e nessun slogan nazista erano presenti durante la manifestazione di Charlottesville dove una manifestante antirazzista era stata uccisa da uno squilibrato alla guida della propria auto lanciata a folle velocità sulla manifestazione.
Il risultato è sorprendente e Spike Lee dopo una quindicina di anni di opere minori sforna un film bellissimo, ben scritto e ben recitato.
Specialmente Adam Driver è letteralmente stellare nella sua lenta presa di coscienza.
Dopo aver inizialmente ammesso di essere un ebreo che si era sempre disinteressato alle questioni del razzismo e della propria identità , una volta venuto a contatto con i suprematisti bianchi inizia un processo per cui inizia la sua consapevolezza dell’orrore davanti a cui si trova.
Una farsa straordinariamente divertente dove gli elementi reali sono così inverosimili da sembrare finzione; ascoltare le parole dei membri del ku klux clan che parlano della razza pura sostenendo che gli ebrei che hanno ucciso Gesù sono una razza inferiore e che l’olocausto è solo una invenzione delle multinazionali ebree farebbe ridere se non si ricadesse con i piedi per terra delle osservando le immagine di quanto accade realmente oggi negli stati uniti di Trump.
Sicuramente il senso dell’umorismo di Jordan Peele regista di “Get out” che è presente come coproduttore del film è stato uno degli elementi chiave della riuscita di questa opera.