Bolla di sapone o nuovo illuminismo italpop ?
Per coloro che sostengono la prima tesi, questa doveva essere l’occasione giusta per poterlo finalmente massacrare. Edoardo d’Erme, in arte Calcutta, se ne era uscito nel 2015 con un secondo album intitolato “Mainstream” (il primo “Forse” si trattava più di un esperimento che di un vero progetto discografico) ed aveva riscontrato un successo clamoroso, per tanti inspiegabile, ma che obiettivamente aveva avuto il merito di far finalmente germogliare quella florida nuova scena di artisti/musicisti che arricchivano già da tempo il sottobosco della scena indie della nostra penisola.
I detrattori del ventinovenne di Latina, riassumibili in una cerchia tra musicisti virtuosi e portabandiera di un codice d’onore di certa musica d’èlite, mettevano in discussione la credibilità di un simile fenomeno, esploso su tutte le testate on line e magazine di settore, perorando il fatto che non è possibile eleggere a nuovo punto di riferimento del cantautorato italiano un musicista che suona 2 accordi in croce e che scrive testi fumosi/surreali di poca rilevanza e spessore. Perciò quale occasione più ghiotta con quello che generalmente viene considerato il disco della verità , ovvero il terzo disco ?
La prima cosa da chiarire è che Calcutta non è il nuovo Battisti, nè tantomeno il nuovo Dalla, il nuovo Jannacci, il nuovo Carboni, il nuovo Ivan Graziani e aggiungete pure voi chi preferite tra i vostri mostri sacri preferiti.
Calcutta è semplicemente Calcutta
.
Attitudine lo-fi, look alla Badly Drawn Boy, melodie sublimi, accordi minimal, testi contemporanei e no sense (ma che proprio no sense non lo sono se ogni singola parola viene considerata elemento prezioso di un discorso molto più complesso).
E dopo vari ascolti quindi della sua ultima fatica il mio personale verdetto vuole suggerire ai detrattori di cospargersi il capo di cenere, a meno che riusciate a trovare subito un album dove di 10 tracce (tra cui una strumentale) almeno la metà sono già potenziali hit (e non chiamatele volgarmente tormentoni!) che, una volta ascoltate, continueremo a cantare sicuramente per tutta l’estate e che se dovessero essere mandate in heavy rotation da qualche emittente nazionalpopolare addirittura forse per i prossimi 30 anni.
Questo non vi basta ? Credete siano hit che presentano tutte la medesima struttura con un inizio in sordina, 2 accordi di piano o chitarra e una apertura melodica nel ritornello (a questo proposito, ricordiamoci che ci sono gruppi che hanno costruito un’intera carriera girando sempre intorno alla stessa canzone)? Benissimo, “Evergreen” risponde anche a questa critica con 3 brani piuttosto sorprendenti quali l’ouverture di “Briciole”, “Nuda nudissima” e “Rai”. Brani che vogliono mettere i puntini sulle I e dimostrare ai benpensanti che il nostro è capace di intraprendere nuove e più sofisticate strade sonore.
La ballad/filastrocca infatti che apre “Evergreen” e che riporta ad un certo cantautorato melodico anni 60 alla Modugno o alla Tenco, ha il compito di introdurci delicatamente in quello che è il favoloso mondo di Edoardo/Amèlie, ricordanodci che noi siamo semplicemente le briciole di un tavolo che ci ha lasciato malinconicamente smarriti. “Nuda Nudissima”, con quelle atmosfere in fase di apertura create dalle chitarre rarefatte un pò alla Low viene miscelato perfettamente da un ritornello beat e da un testo sensuale e dissoluto lontano dal Calcutta timido dell’album precedente. Mentre “Rai”, una mini opera pop, ricorda con quell’andatura circense i mondi surreali di Vinicio Capossela.
Dei tre singoli, “Orgasmo”, “Pesto” e “Paracetamolo”, già 3 classici nel momento in cui sono stati resi disponibili, mi sento solo di consigliarvi di andare a guardarvi gli ottimi video a supporto con 3 ministorie nelle storie create dal regista Francesco Lettieri.
Abbiamo poi “Kiwi” con un ritornello in odore di Brit Pop, “Saliva” che è una dichiarazione d’amore surreale ma molto profonda (ripensandoci bene la cosa più bella che hai sono i nei/che punteggiano i discorsi tuoi/la cosa più bella che hai è la tua saliva/ che risbatte forte come il mare e ai miei pensieri arriva) e quello che indubbiamente è il brano simbolo dell’album che è “Hubner”. Brano quest’ultimo che oltre a vantare una perfezione melodica pari a quella beatlesiana o a quella del Beach Boys Brian Wilson (e non è un caso che durante gli ultimi mesi Edoardo ha confessato di aver ascoltato solo il suo travagliato “Smile”) simboleggia perfettamente la presenza di Calcutta nel panorama musicale come lo è stata quella del bomber del Brescia degli anni 90 che si è ritrovato a vincere la classifica capocannonieri ma rimanendo un outsider in un sistema luccicante e superficiale come quello del calcio.
Non mi sento di assicurarvi se questa che stiamo vivendo è una fase di rinascimento del nostro cantautorato popolare, ma posso garantirvi che un effetto collaterale immediatamente dopo l’uso è certo: Calcutta provoca forte dipendenza!