Il mio amico Raffaele ci ha provato a smorzare l’entusiamo del sottoscritto: “Vedere gli Alice senza Layne è quasi come vedere i Doors senza Morrison“. Verrebbe da dire subito si. Eppure il post Jim fu davvero inconsistente, con gli album “Other Voices” e “Full Circle” (“An American Prayer”, almeno commercialmente ebbe un buon riscontro), mentre il post Layne ha dimostrato che per gli Alice, oltre che un presente, poteva anche esserci un discreto futuro e i dischi successivi al gravissimo lutto lo hanno dimostrato.
Non è stato facile certo. In primis per Jerry Cantrell, che ha dovuto allargare le sue spalle per reggere il peso del nome: schivo e umile, anche quando viene osannato dalla folla (come a Padova), risponde con un sorriso dicendo che sul palco ci sono gli Alice In Chains, non solo lui. Spalle larghe, testa sempre ben salda su quelle stesse spalle e forte senso del gruppo e non del singolo per Jerry.
Chi lavora nell’ombra ma si dimostra indispensabile è la premiata ditta Inez e Kinney, che danno un senso del ritmo e una profondità al suono inaudita. Brividi veramente. Non è solo l’affiatamento, è proprio l’avere in mente un sound ed esserci totalmente dentro. Come accade per Cantrell, ovviamente, che ora poi con la barba ha un che di sciamanico, ma anche per William Duvall, che ha raccolto la pesantissima eredità con dignità e rispetto.
La voce a tratti pare quella di Layne, ma la postura, il linguaggio del corpo, la passione che trasmette sono personali: mai troppo sbruffone, mai troppo in vista, ma capace di ritagliarsi un suo spazio anche con 3 figure così ingombranti sul palco. Non ha l’anima sporca e corrotta di Layne, che nelle sue parole metteva tutto sè stesso, usa cuore e testa per riprendere parole altrui, ma non sfigura affatto. Non ho mai avuto l’impressione di un karaoke nostalgico, mai. La scaletta è fenomenale, perchè pesca molto dal passato e alterna le migliori cose nuove. Il pubblico gradisce. Pelle d’oca per brani come “Nutshell” “Down in a Hole”, “Man in the Box” e “We Die Young”. Alla fine saranno 19 i brani per 1h e 40 minuti di musica, ottimamente supportati anche da un impianto palco e luci all’altezzza e da un sound che, almeno dalla mia postazione, non ha mai deluso come resa.
Jerry macina riff potenti e pesanti e riesce a trasformare anche l’ambiente festoso dello Sherwood in un luogo malsano e oscuro, che trova l’apice in “Rooster”, posta in chiusura, con il pubblico (molto partecipe per tutto il concerto c’è da dire) che urla a gran voce: “Here they come to snuff the rooster, aww yeah, hey yeah/ Yeah here come the rooster, yeah“.
Una serata da ricordare.