Quando penso a Richard Oakes, penso al 17enne enfant prodige che nel 1994 entrò nei Suede pochi mesi dopo l’uscita di “Dog Man Star”, penso alla sua chitarra sempre elegante, precisa e coinvolgente in piena tradizione brit rock che fa da contrappeso ad una presenza scenica minimale, da comprimario (e con un animale da palco come Brett Anderson, sarebbe comunque difficile per chiunque fare diversamente): gli stessi arpeggi, le pennate, gli assoli, avevamo avuto modo di sentirli ancora anche nel precedente lavoro degli Artmagic “Become The One You Love” datato 2012.
A sei anni di distanza quello che è fondamentalmente un progetto a due tra la chitarra dello stesso Oakes e Sean McGhee (che vanta produzioni o collaborazioni con nomi del calibro di Alison Moyet o Alanis Morrissette) alla voce, torna con questo “The Songs of Other England” che denota un cambio di prospettiva radicale nello storytelling (da racconti vicini all’autobiografia ed a propri sentimenti ed emozioni a narrazioni sulle vite degli altri o su temi universali, quali l’amore, la solitudine, …) ma lo stesso fascino melanconico e gli stessi accenti folk che avevano caratterizzato il precedente capitolo.
Arrangiamenti impeccabili con uso importante ma non invasivo di tastiere e synth, melodie semplici e dirette, atmosfere decadenti ma umane, quotidiane, sincere.
Il lavoro si apre con “The Farmer and The Field” che sa tanto di Genesis e di racconto bucolico moderno impreziosito da un Oakes mai invadente e sempre raffinato, per proseguire con l’altrettanto melodica “The Songs of Other England” e la solitudine del mesto ( e senza amore) pescatore di “The King of Fishers”; i toni si fanno più briosi ed incalzanti con “I Won’t Change You”, mentre “Clean Room”, primo singolo dell’album, riporta i colori su tonalità più nebbiose ed opache. “The Boys’ Own Book of Birds” è un altro spaccato su caratteri terzi e le loro passioni ( di una donna e il birdwatching, diletto troppo presto accantonato, in questo caso) dove Oakes irrompe con una chitarra shoegaze tempestosa e conturbante, “Into the Light” parla del poeta Alfred Edward Housman, mentre “The Dark of Human Heart” è il pezzo più scuro, con una batteria a scandire ritmi quasi militareschi e Oakes a creare un’aura continua e trasversale di inquietudine e disorientamento; l’album si chiude con la “Sing for the Snowfall” una sorta di filastrocca disillusa e disincantata, lasciando dei riscontri piuttosto chiari: il disco è un’opera di sostanza, istintiva ma non approssimativa, Oakes dimostra ancora una volta classe e stile; quello che, semmai, non convince è – al netto di una capacità narrativa e di stesura valida e dalle immagini vivide – la voce di McGhee che raramente colpisce, difficilmente emoziona ed è lontanissima dal catturare l’ascoltatore.