Dietro “Tangerine Reef” c’è un progetto assai ambizioso che scavalca i tradizionali confini dell’album per trasformarsi in una suggestiva esperienza audiovisiva. Gli Animal Collective, per l’occasione orfani di Panda Bear (e non è cosa di poco conto, considerando il fatto che fino a oggi non si era ancora mai perso un singolo full-length realizzato dalla flessibilissima formazione del Maryland), hanno creato la musica alla base di questa loro undicesima fatica in studio lavorando in tandem con i Coral Morphologic, ovvero due videomaker di Miami che uniscono arte, cinema e scienza in documentari talmente affascinanti da essere riusciti a strapparsi un po’ di spazio anche su National Geographic Channel e BBC. Da questa unione è nato un vero e proprio film (disponibile qui per la visione) che celebra l’anno internazionale delle barriere coralline regalandoci incredibili immagini ultra-definite e ultra-ravvicinate di fondali marini esotici.
Agli Animal Collective di “Tangerine Reef” spetta quindi l’inedito ruolo di voci narranti: sono i loro timidi suoni elettronici a commentare e a presentarci il coloratissimo mondo alieno che si schiude davanti ai nostri occhi. La bellezza e la varietà delle riprese di Colin Foord e J.D. McKay entrano però spesso in collisione con brani che, a forza di cercare di calare l’ascoltatore nella dimensione giusta, tendono con prepotenza verso il soporifero.
Purtroppo nel giro di trent’anni una buona parte dei coralli che vivono nei nostri oceani sarà sparita a causa del riscaldamento e dell’acidificazione delle acque; “Tangerine Reef” sembra voler partire da questa infausta previsione per immergere la musica degli Animal Collective in abissi di pessimismo, per quanto distesi e addirittura sereni in alcuni frangenti. Dimenticatevi le chitarre di “Feels” o le tinte psichedeliche di “Merriweather Post Pavillion”: il 2018 per Deakin, Geologist e Avey Tare è fatto di lente cantilene elettroniche a metà strada tra ambient e drone, con solo qualche sporadico rumore acquatico (il gocciolio insistente di “Hair Cutter” e le onde digitali di “Lundsten Coral”) a infondere un po’ di ritmo.
L’impressione è di trovarsi a mollo in un mare ancora brulicante vita ma già infinitamente triste, condannato a morte certa dai nostri errori e dalla nostra indifferenza. Voci rarefatte neanche appartenessero a spettri e le prime note della drammatica toccata e fuga in Re minore di Johann Sebastian Bach citate in “Inspector Gadget” incutono un senso di rassegnazione ancora maggiore all’opera, tanto da trasformare le meravigliose barriere coralline protagoniste del documentario in infelici emblemi di una grazia destinata a svanire per sempre in una bolla di quieta disperazione.
Credit: Hisham Bharoocha