Tornano a distanza di soli due anni da “Breakin’ Point” gli svedesi Peter Morèn, Bjorn Yttling e John Eriksson, noti come prolifica indie band con i soli nomi di battesimo Peter, Bjorn and John. Se il nome può dire poco a una vasta platea di appassionati musicofili, siamo sicuri che anche l’ascoltatore più distratto sia in grado di fischiettare di primo acchito il tema del loro più grande successo “Young Folks”, uscito nel 2006.
Poco importa se in fondo, almeno in Italia, il boom a scoppio ritardato lo ottennero dopo ripetuti e ossessivi passaggi televisivi di uno spot di un’arcinota marca di telefonia, visto che in realtà i riscontri furono ampi, certificati e soprattutto meritati, vista l’irresistibile melodia, fresca e accattivante e l’attitudine indie che nel loro caso era tutto fuorchè etichetta. Ben quotata su Pitchfork, fu inserita nel videogioco Fifa 08, votata come seconda miglior canzone dell’anno dai lettori della rivista New Musical Express e il relativo video vinse addirittura un Grammy Award. Un video d’animazione in effetti simpatico e “catchy”. Il singolo, che alla voce vedeva impegnata anche Victoria Bergsman, cantante dei The Concretes, contribuì soprattutto a far decollare nelle vendite “Writer’s Block”, l’album che lo conteneva: quasi 100.000 copie solo negli Usa.
Logico che dopo un exploit del genere il rischio di rimanere per sempre ricordati come quelli di “Young Folks” fosse molto più che concreto, e in effetti di singoli così “perfetti” non ne hanno più scritti; però sarebbe ingeneroso definirli come meteore, vista l’ingente produzione, comprensiva di ben 7 EP e 8 dischi dal 2002 ad oggi. Lo stacco temporale maggiore era avvenuto tra il terzultimo disco e il penultimo, quando fra i due lavori intercorsero 5 anni e il ritorno sulle scene era coinciso guarda caso con l’album più particolare del lotto, il già citato “Breakin’ Point” in cui si alternarono diversi nomi in fase di produzione, oltre che molti collaboratori, con l’effetto che si perse quell’elemento di omogeneità e compattezza sempre presente sin dagli esordi.
Per questo salutiamo con piacere questo rientro immediato in pista, visto che in “Darker Days” ritroviamo tutti gli elementi cari al gruppo, gli ingredienti al loro posto, un’affinità ritrovata tra i tre leader, equamente impegnati in fase di scrittura e composizione e in primis quelle gradevoli canzoni cui ci avevano abituati.
Niente di trascendentale forse, però ad esempio, dopo la sognante introduzione strumentale di “Longer Nights”, le cartucce sparate colpiscono subito il bersaglio: “One for the Team” infatti è probabilmente la migliore dell’intero disco. Melodica, con un arrangiamento accattivante, l’elettronica non invasiva e dal gusto eightees e gli immancabili coretti a far capolino: insomma un ottimo biglietto da visita di un’armonia tra le parti ritrovata.
Anche la successiva “Every Other Night” spicca nella raccolta, grazie all’incalzante basso e all’efficace ritornello. “Gut Feeling” mantiene elevata la componente melodica, pur mostrandosi meno solare, mentre “Living a Dream” è smaccatamente anni ’70 e può richiamare le atmosfere più placide di Simon & Garfunkel, che esplicitamente vengono citati tra le fonti di ispirazione per questo disco. Altri brani sono certamente meno immediati, oltre che più oscuri: penso alla darkeggiante “Sick and Tired” o all’acustica “Wrapped Around the Axle”, che sfocia in ogni caso in un arioso ritornello.
I brani, seppure per la maggiore parte come detto ad alto tasso melodico e in grado di trasmettere serenità , nascono invero da tensioni opposte, con i tre cantanti protesi a raccontare i giorni bui (da titolo dell’opera) che in realtà stiamo vivendo al giorno d’oggi. Temi affrontati da punti di vista differenti, come spiegato dagli stessi Peter, Bjorn and John in sede di presentazione del disco, andando a sondare di volta in volta la psiche umana, le relazioni sentimentali o a più ampio raggio i fatti del mondo.
Per manifestarci però le loro sensazioni scelgono di non essere opprimenti e pesanti e a conti fatti al termine delle 11 tracce (evocativa la conclusiva “Heaven and Hell” con la sua lunga coda strumentale, a riallacciarsi idealmente alla intro iniziale), quello che ci rimane è un lavoro che non tradisce le aspettative, delicato e anzi leggero come nella migliore loro tradizione.