Berlino è una città  particolare: musicalmente incastonata tra rock, pop, elettronica, industrial; culturalmente nascosta, che si fa cercare, senza mettersi in mostra platealmente; fredda, austera, ma colma di culture ed etnie diverse. Negli anni Ottanta ancora non c’erano i voli low cost e per scoprire qualcosa in più sul Nord Europa o si prendevano i mezzi o si rischiava l’avventura in autostop.

Chi è nato nei Novanta, come chi scrive, non ha vissuto la Berlino del Muro, nè tantomeno l’impatto della sua caduta e non è nemmeno semplice spiegare ad un bambino i motivi per i quali migliaia di famiglie, amici, parenti e amori vennero divisi da quelle lastre asettiche di cemento sorvegliate h24 dai VoPos, la Polizia Popolare.
Con il passare degli anni Berlino si è trasformata e vista nel 2018, sembra essere una città  in fieri, che guarda avanti,  risollevata dall’ombra degli anni passati: mostre, concerti, itinerari, musei, edifici e percorsi sembrano essersi impossessati del vuoto lasciato dalla guerra in poi.

Se chi scrive ha visto Berlino solo nell’estate del 2018, per qualche giorno, approfittando dei voli scontatissimi e dell’economicità  della città , Massimo Zamboni ha vissuto il periodo più alternativo della città , ancora divisa dal muro (per i tedeschi al femminile, Die Berliner Mauer): gli anni Ottanta.

Il racconto che ne è uscito ha preso forma prima, ma solo in parte, nel libro “Il mio primo dopoguerra. Cronache sulle macerie: Berlino Ovest, Beirut, Mostar” (Mondadori), per poi diventare centrale nell’ultimo lavoro del 2017, “Nessuna voce dentro – un’estate a Berlino Ovest” (Einaudi). Quest’ultimo è una vera e propria autobiografia dell’estate del 1981, passata a Berlino in una casa occupata, che al citofono risultava essere della Familie B. Setzer (che in italiano sarebbe come dire, Famiglia O’ Cupanti), in attesa di un punto di svolta, arrivato poco prima di tornare a casa grazie all’incontro con Giovanni Lindo Ferretti.

Un prequel della storia dei CCCP.

Il libro ha portato poi allo spettacolo teatrale “Nessuna voce dentro – Berlino millenovecentottantuno” insieme ad Angela Baraldi e Cristiano Roversi e, ora, al disco contenente le musiche dello spettacolo, Sonata a Kreuzberg.

è difficile ascoltare e comprendere l’album senza aver letto il libro o assistito allo spettacolo teatrale. Le citazioni, i rimandi, le idee del vissuto berlinese si susseguono all’interno dello stesso: “Der Räuber und der Prinz” dei D.A.F. o “In the garden” degli Einstà¼rzende Neubauten, citati a richiamo della rigidità  tedesca: “Arriva il momento dei gruppi da casa. Entrano come una gamba tesa, si instaurano con una asprezza che spazza via l’idea della musica, sostituendola con la pura necessità . Gli Ideal da Berlino. Pyrolator. Malaria. Einstà¼rzende Neubauten. Abwärts. Hanno freddo, questi gruppi tedeschi, hanno freddo e lo trasmettono. Contagiano di brividi. Anche Nina Hagen, spacciata per focosa, nonostante i modi accesi e i colori ha freddo. Sono corpi a sangue freddo. Battono i denti i DAF, li fanno battere in bocca”.

Per non parlare di Nico, omaggiata con la cover di “Afraid” delicata e con Angela Baraldi particolarmente ispirata: “Una che amo particolarmente è Christa Päffgen ““ in arte: Nico. L’ho incrociata l’anno scorso su un palcoscenico storico, quello del Max’s Kansas City di New York, assieme a uno sbandato chitarrista punkettone. Il pubblico beve, lui scherza, salta, gioca. Lei appare, scompare. Sembra innamorata della vitalità  di quel ragazzo improbabile, lo bacia sul collo, lo strangola con il cavo del microfono finchè qualcosa la fa annuvolare e se ne va. Non è un gioco, non è spettacolo. è Nico. Ricompare. Canta “Das Lied der Deutschen”, l’inno nazionale tedesco, e il suo harmonium resuscita gli spettri. Quando intona “The End” non puoi ascoltarla, nè guardarla, ma solo contemplarla come un organismo inaccessibile”.

La musica trasmette i pensieri di Massimo Zamboni alle prese con testi mai sentiti prima, attuali, necessari, urgenti, come quello di “Kebab Träume” dei D.A.F.: “Spie, agenti, comitati centrali: ma chi ha mai ascoltato frasi come queste, in una canzone rock? Sono parole che mi colpiscono come un pugno: di questo, oggi, si deve cantare. E quel finale che trapassa il nostro cervello: «Alles ist vorbei ». Tutto è finito. «Wir sind die Tà¼rken von Morgen ». «Noi siamo i turchi di domani »”.

Racconta di momenti indecifrabili, come quello con l’amico Davis, per l’occasione in tenuta elegante con zoccoli, jeans a campana, una camicia gialla e un gilet nero, che stenta ad andare al Cafè Kaos, lontano poche centinaia di metri dalla casa nella quale abitavano. Una volta entrati la sensazione era straniante, toccando vette altissime durante l’attacco di “Bette Davis Eyes” (anche questo presente nell’album): «la canzone è cosà­ assurdamente fuori luogo, eppure si saprà  imporre con tanta legittimità  e forza da diventare in pochi giorni uno degli inni dell’estate berlinese. […] Piangeremmo tutti, come fanti di trincea, ma non si può. Quindi, dondoliamo ». Tutta la forza ostentata nelle manifestazioni, nelle prese di posizione, nelle occupazioni, nelle vetrine delle banche rotte si sgretola alla voce roca di Kim Carnes (con Angela Baraldi che riesce nello stesso intento).

Non mancano i sopra citati Ideal, omaggiati con “Hundsgemein” e Lou Reed, con la sua “Berlin”. Spunta anche la cover di “Allarme” dei CCCP, colmi di Berlino anche loro, dall’incontro tra Giovanni e Massimo alla copertina di “Ortodossia” con i VoPos.

L’album rende proprio l’idea di quello che può essere il viaggio sonoro di Berlino anni Ottanta e il lavoro dei tre musicisti è esemplare. Era un compito difficile quello di replicare brani così particolari, con un’identità  precisa e sonorità  uniche, ma i tre ci sono riusciti, aggiungendo anche canzoni originali (“Unterwegs” e “Superfly” di Cristiano Roversi e “Ein dunkel Herr” e “La città  imperiale” a firma Massimo Zamboni).
Massimo si trova spiazzato al suo arrivo a Berlino, ma rimane folgorato da un miraggio angelico in stile Wim Wenders che gli trova un rifugio dove stare: “L’angelo urla: ““ C’è uno dall’Italia, può stare là­ da voi?.  Dalla finestra: ““ Sà­. Io singulto: ““ Sà­?. L’angelo sorride: ““ Wilkommen in Berlin ““. E si dissolve”. Finalmente un volto amico. Ma se Marion ne “Il Cielo sopra Berlino” (film di Wenders, altamente consigliato per approfondire il tema-Berlino) si sentiva “straniera e tuttavia è tutto così familiare. In ogni caso non ci si può perdere: s’arriva sempre al muro”, Massimo Zamboni, dopo aver trovato riparo lo cerca incuriosito, quasi sfidando il tabù dell’invisibilità  del muro da parte di molti: osserva tutte le sue sfaccettature, il percorso tra i palazzi e le leggende, come quella di un certo Frank Kafka incontrato ad una lavanderia a gettoni, che racconta cosa c’è al di là  del muro, impossibile da superare: “se anche infine ti precipitassi fuori dall’ultima porta, ti troveresti davanti la città  imperiale, il centro del mondo, la città  che ha ammucchiato i propri detriti. Nessuno può penetrare sino là­, ancor meno se reca con sè l’ambasciata di un morto”.

“Sonata a Kreuzberg” è la musica di tutto questo: un’esperienza, un viaggio, una storia da raccontare e da tramandare, e non si poteva sperare in un ascolto migliore.