#10) SUPERORGANISM
Superorganism
[Domino]
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Il collettivo più stralunato dell’anno, proveniente da mezzo mondo e radunatosi in un appartamento di Londra, sostiene di essersi conosciuto tramite la comune passione per i meme. Il loro pop caleidoscopico ha la freschezza e lo zeitgeist di quelli migliori.
#9) GOAT GIRL
Goat Girl
[Rough Trade]
Più del #metoo, sono i gruppi come le Goat Girl che mi fanno credere che la parità di genere sia possibile. Imparata la lezione dei Libertines, le quattro ragazze londinesi realizzano un LP di debutto che non guarda in faccia nessuno e proprio per questo suona autentico e coraggioso.
#8) LET’S EAT GRANDMA
I’m All Ears
[Transgressive]
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Solo diciannovenni e già al secondo disco, Rosa Walton e Jenny Hollingworth potrebbero essere le paladine della Primark generation. Con ingredienti semplicissimi scrivono electro-pop irresistibile, ingenuo eppure per nulla superficiale.
#7) LOW
Double Negative
[Sub Pop]
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Dopo una carriera impeccabile lunga quasi 25 anni, i Low approdano alla sperimentazione, frantumando il loro slowcore in una tempesta elettromagnetica. Non è un disco da ascoltare in sottofondo, ma è un grande disco: ricco, intenso, perfetta colonna sonora del lato oscuro dei nostri tempi.
#6) SANDRO PERRI
In Another Life
[Constellation]
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Composto di sole due canzoni, Sandro Perri ha scritto una sorta di 45 giri ingrandito che riesce nel miracolo di dilatare il tempo, invece di prolungarlo. Sia la ballata infinita del lato A, che i tributi a Parigi con Andrè Ethier e Dan Bejar sul lato B sono piccoli gioielli spediti da un’altra dimensione.
#5) COURTNEY BARNETT
Tell Me How You Really Feel
[Milk! Records/MOM+POP/Marathon]
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Dopo il riuscitissimo disco in coppia con Kurt Vile, è tempo per entrambi di tornare alle loro carriere soliste. La Barnett lo fa portando il suo songwriting a un nuovo livello, che mantiene tutto lo humour dei suoi primi lavori ma ci aggiunge una scrittura sempre più solida e un sound anni 90 che comincia a trovare una sua compiutezza.
#4) SNAIL MAIL
Lush
[Matador]
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Vero, non c’è nulla di estremamente nuovo nell’indie rock di Lindsey Jordan, ma il suo album di debutto a neanche vent’anni è già in grado di giocare ad armi pari con i classici e ha dalla sua una sincerità e un’urgenza che è difficile trovare in un genere ormai così codificato. Pochi sanno tirare fuori canzoni come queste da una voce e una chitarra elettrica.
#3) JON HOPKINS
Singularity
[Domino]
In uno strano spazio tra techno e IDM, tra Brian Eno e neoclassica, Jon Hopkins ha costruito un altro capolavoro. Ancora più che nel precedente “Immunity”, si conferma un maestro nel manipolare i suoni elettronici per viaggiare in spazi profondamente umani.
#2) LUCY DACUS
Historian
[Matador]
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C’è qualcosa di senza tempo nelle ballate di Lucy Dacus. La sua voce, innanzitutto, dalla quale è impossibile riconoscere i suoi 23 anni. Le melodie al confine con il country e la migliore tradizione americana (Wilco, The War on Drugs). Gli arrangiamenti stratificati, gli stessi testi che descrivono storie precise quanto universali. Come anche il titolo potrebbe fare intuire, è un disco che ha uno sguardo lungo, che non è interessato a inseguire alcuna moda. Ben venga, quando viene fatto così bene.
#1) IDLES
Joy as an Act of Resistance
[Partisan]
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Chi si sarebbe aspettato che il 2018 avrebbe sancito la rinascita del punk politico in Gran Bretagna. Certo, in tempi di Brexit, populismo e paura, gli IDLES sono la band che non ci meritiamo ma di cui abbiamo disperatamente bisogno. Perchè nell’energia di Joe Talbot, nelle chitarre nervose, nel pogo sotto il palco e nei testi cantati a squarciagola da un pubblico sempre più numeroso c’è innanzitutto la voglia, la speranza di tempi migliori. Contro l’apatia e la rassegnazione, la gioia è davvero un atto di resistenza.