Svegliarsi e trovare una bella sorpresa che ti aspetta: cosa chiedere di meglio per iniziare un giovedì di gennaio, la cui notte ci ha portato anche qualche centimetro di neve, giusto per imbiancare i campi e per aggiungere un po’ di sano e malinconico romanticismo invernale.
Sarà un caso? Non lo sappiamo. Ciò che invece conosciamo è il nome della sorpresa: Better Oblivion Community Center. Era già dalle ultime settimane dello scorso anno che Phoebe Bridgers e Conor Oberst postavano questo riferimento sui loro canali social, ma nessuna notizia ufficiale era trapelata fino a oggi, solo supposizioni.
Già disponibile in via digitale (mentre la release fisica arriverà solo il 22 febbraio via Dead Oceans), questo primo disco dell’inedita coppia statunitense è stato registrato tra l’estate e l’inverno del 2018 a Los Angeles, con Andy Le Master che ha condiviso i lavori di produzione con gli stessi Bridgers e Oberst, mentre il mixing è stato realizzato da John Congleton.
Come se non bastasse, anche la lista di ospiti che hanno aiutato il duo a realizzare questo loro debutto sulla lunga distanza è lunga e prestigiosa: Nick Zinner degli Yeah Yeah Yeahs, Carla Azar (Autolux, Jack White), Wylie Gelber e Griffin Goldsmith dei Dawes, Christian Lee Hutson e Anna Butterss.
Le promesse per un lavoro di qualità enorme ci sono tutte, ma, come la storia ci ha insegnato tante volte, non sempre bastano nomi altisonanti per creare un grande album.
“Better Oblivion Community Center”, però, le sue promesse ““ lo mettiamo in chiaro subito – le mantiene perchè le qualità di Conor e Phoebe difficilmente cercano di avere la meglio l’una sull’altra, anzi la collaborazione è proprio la vera forza di questo duo: come ha rivelato Oberst in una nuova intervista con NME, il disco è stato scritto insieme, recupera in qualche modo le influenze di entrambi e, per circa l’ottanta per cento dei suoi trentasette minuti, vede i due cantare insieme. Questa potrebbe essere ritenuta una vittoria ancor prima di partire, ma i risultati li troviamo una volta messe le cuffie e schiacciato play su Spotify.
“Didn’t Know What I Was In For” apre i giochi con la voce della bionda musicista californiana, accompagnata da una leggera chitarra e poco altro: l’atmosfera è subito malinconica, i temi della canzone non sono esattamente facili, ma le emozioni e quel grande senso di intimità pervadono immediatamente le orecchie dell’ascoltatore.
Se avevamo bisogno di sentire brividi, “Service Road” è la traccia che fa per noi e forse è la nostra preferita di tutto il disco: va a camminare su territori dell’Americana e regala momenti di assolute emozioni.
La delizia prosegue anche in “Chesapeake”, dove le due voci sembrano unirsi in una sola: il brano ci dona sensazioni difficili da descrivere, pur nella sua semplicità .
Arrivano anche i momenti più duri: la conclusiva “Dominos”, cover di Taylor Hollingsworth, per esempio, si chiude con un lungo e rumoroso assolo di circa quaranta secondi, cortesia di Nick Zinner, dopo che erano stati i sentimenti e la tranquillità a prevalere per tutto il resto del pezzo.
“Exception To The Rule” è, invece, la canzone meno riuscita del disco, con quei suoi synth iniziali che sembrano portare veramente poco lontano, ma, poco più avanti, le due ottime voci di Phoebe e Conor aggiustano il tiro, grazie anche all’apporto di una seconda linea di synth, assolutamente melodica e morbida, che va a contrastare con la durezza dell’altra.
“Big Black Heart”, un’altra onda di emozioni che arrivano in faccia grazie alla sempre emotiva Bridgers, ci sorprende con l’arrivo di pesanti chitarre fuzzy nel coro, facendoci conoscere l’ennesima faccia che questa nuova band sa, puo’ e vuole mostrare.
Sono passati quei trentasette minuti di cui parlavamo poco sopra e se ne vorrebbe ancora tanti altri: il disco, però, è finito e non ci ha solo mostrato una grande solidità , una qualità invidiabile e costante e una buona varietà stilistica, ma ci anche regalato una gamma di sensazioni intense e sincere, anche se malinconiche. “And if you are not feeling ready, there’s always tomorrow”.