Voglio subito mettere in chiaro una cosa: credo che “Nowhere Now Here” sia un buon disco. Ha tutte le caratteristiche necessarie per attrarre ogni amante di post-rock che si rispetti e forse anche qualcosa di più, come la maggior parte dei precedenti nove album firmati MONO. Dall’eccellente qualità delle trame chitarristiche elaborate da Takaakira “Taka” Goto e Hideki “Yoda” Suematsu ai suggestivi inserti elettronico/orchestrali, queste dieci tracce rappresentano l’encomiabile risultato di vent’anni di crescita e sperimentazione.
La produzione minimale di Steve Albini, inoltre, ha il merito di riuscire a mettere in risalto, almeno in alcuni passaggi, il lato più ruvido ed elettrico del quartetto nipponico (ottimo il lavoro su “After You Comes The Flood” e “Meet Us Where The Night Ends”, con una resa sonora degna dei loro intensissimi set dal vivo). Se mi fermassi a queste poche righe, potreste pensare di trovarvi di fronte a un capolavoro. Dispiace dover spezzare l’incantesimo, ma purtroppo non è così.
A mio modesto parere, un difetto il disco ce l’ha. E neanche di poco conto, considerando il fatto che ho fatto una fatica incredibile ad ascoltarlo più volte dall’inizio alla fine. Riguarda uno dei veri e propri marchi di fabbrica della musica dei MONO: la malinconia o, per essere più precisi, l’enorme tristezza che da sempre tinge di grigio i loro soundscape strumentali. In “Nowhere Now Here” il tradizionale spleen post-rock di Taka e compagni si carica di una magniloquenza tale da appesantire all’inverosimile una ricetta già di per sè abbastanza difficile da digerire.
Il minutaggio decisamente abbondante di tanti brani rende il tutto ancora più complesso. La title track, “Far and Further” e “Sorrow”, tanto per fare i primi tre esempi che mi vengono in mente, presentano momenti davvero emozionanti; peccato solo per la loro eccessiva lunghezza, che in chiusura costringe i MONO a lanciarsi in interminabili cavalcate deprimenti e crescendo buttati lì un po’ a caso, giusto per dare una qualche impressione di intensità e profondità . Di poco conto gli intermezzi classicheggianti (“Parting”, “Funeral Song”); molto meglio, invece, il debutto dietro il microfono della bassista Tamaki Kunishi, che in “Breathe” tira fuori una fragilissima voce da Nico del Sol Levante e risolleva un po’ le sorti di un album di assoluto livello ma francamente noioso.
Che volete che vi dica: sono insensibile e ho un cuore freddo come il ghiaccio. Sta di fatto che con “Nowhere Now Here” di sottofondo mi sono fatto delle ricchissime dormite sul sedile del treno che ogni giorno mi porta a lavoro. Mezzo punto in più ai MONO per avermi fatto entrare in ufficio un po’ più riposato rispetto al solito.