Quando nel 2016 Kinsella e sodali decisero di dar seguito al primo loro capitolo, divenuto nel mentre una sorta di oggetto di culto, qualcosa come 17 anni dopo dalla sua uscita, sarebbe stato più facile, spinti da convenienza ed opportunità facili e date dall’effetto nostalgia e che avrebbero potuto portare con sè, cadere nel forzato, se non addirittura nel passo falso o persino nel pacchiano. Così non è stato, e il secondo capitolo dei ragazzi dell’Illinois, nel mentre fattisi uomini, ha visto in linea generale una grande mole di apprezzamenti, un piacere nel riscoprirli seppur con qualche anno in più nella carta d’identità , nel vedere come i temi da post-adolescenti di fine millennio si fossero ora trasformati in punti di vista e prese di coscienza mature, disilluse, ma sempre seguendo il ductus sia di contenuti sia compositivo che li aveva resi per certi versi una sorta di riferimento generazionale: non era facile, no, ma tornando in punta di piedi, senza protagonismi o esagerazioni, a modo loro, ce l’avevano fatta.
Ecco allora che questo terzo lavoro sulla lunga distanza (va da sè, chiamato “LP3”) finisca per assumere a tutti gli effetti i crismi della vera e propria prova del nove: perchè adesso non sarebbe più possibile giocare sull’effetto ritorno, è necessario invece ragionare ed agire come un gruppo vero e proprio, e se non metti sul piatto qualcosa di veramente concreto, chi ti ascolta è lì pronto a bollarti, a puntarti il dito addosso. Sempre che te ne freghi qualcosa, verrebbe da dire.
Infatti la risposta degli American Football a questi potenziali ed ipotetici j’accuse, è la più genuina e naturale che ci possa essere.
Kinsella e compagni continuano per la loro strada. Con altri tre anni sul groppone, facendo quello che sanno fare meglio, laddove il talento, quello no, non lo puoi davvero perdere per il percorso, a meno che tu non lo voglia.
Certo, compromessi ed accessori, specie quando il tempo passa, possono diventare supporti necessari: si deve lavorare sui volumi, si deve aggiungere (il tintinnante xilofono che apre il lavoro con “Silhouettes”), ci si può far aiutare più del solito, ci si può adornare di qualche orpello, si può far entrare più pop in casa propria. Tutto sta a come si riesce a gestire quanto sopra, come col vino: se non è buono, e magari esageri, ti manda al tappeto. E superati i 40 anni, rialzarsi da una sbronza da prodotti di bassa qualità , non sarebbe più come a 20.
Gli American Football però questo lo sanno bene, allora lavorano di misura invitando al tavolo gente come Elizabeth Powell dei Land of Talk (in “Every Wave to Ever Rise”), Hayley Williams dei Paramore (in “Unconfortably Numb”) o Rachel Goswell degli Slowdive (in “I Can Feel You”, a conti fatti lo zenit dell’album), e danno inizio al convivio: e per un corredo sonoro arioso ed armonico, arpeggiato ed elegante che apre le finestre allo shoegaze più morbido e vagamente ipnotico, i temi trattati sono a loro volta, ed ancora, emozionali, delicati e riflessivi. Senza rabbia pur nella nostalgia, tra i pensieri e le difficoltà che ci sono ora come c’erano 20 anni fa, per quanto diverse, come quelle che adesso incontriamo nelle relazioni o nel crescere un figlio.
C’è grazia e c’è sostanza, c’è il sentimento di una carezza e l’umanità di una lacrima, c’è tanto da dire, ancora. Non ci sono passi falsi, tantomeno imbarazzi, non c’è un calo di interesse: è come aver ritrovato un amico con il quale c’era un rapporto speciale tanti anni fa, che si pensava perso senza colpe nè da un lato, nè dall’altro, ma solo perchè le cose succedono. E poi te lo ritrovi, avete tempo di riavvicinarvi, vi raccontate quello che è successo fino a lì, e stringete di nuovo un rapporto. E tornate vicini, con qualche anno di più , più grandi fuori e dentro, ma con ancora tanti motivi per vedervi e scambiarvi cose sull’oggi, senza pensare più al tempo che ha scandito l’assenza.
Così è con gli American Football: il piacere, ormai, è quello di essersi ritrovati. Più grandi, ma di nuovo insieme.