I Meat Puppets, gruppo di culto americano sin dagli anni ’80 ma che hanno avuto il loro apice commerciale a metà anni ’90, quando uscì “To High to Die”, non hanno in realtà mai smesso di pubblicare i loro dischi, anche se via via lo hanno fatto rintanandosi in quei confini underground, da cui in fondo non si erano mai veramente staccati.
E’ indubbio, fors’anche retorico, ammettere però che, senza la loro gloriosa apparizione nel famoso disco unplugged dei Nirvana, molto probabilmente i loro nomi e i loro volti non avrebbero prevaricato i confini di Stato.
Kurt Cobain infatti li volle con sè sul palco per rifare ben tre oscuri brani risalenti al secondo disco omonimo del trio, uscito dieci anni prima.
Fu un gesto autentico da parte sua, un omaggio sincero a quelli che, al pari di altri eroi “minori” come i Melvins, erano stati per lui dei modelli artistici da seguire.
Le varie “Plateau”, “Oh, Me” e “Lake of Fire”, reinterpretate magnificamente in chiave acustica, non solo accesero la meritata luce sulla bravura e sulle qualità dei fratelli Curt e Cris Kirkwood, ma nemmeno sfigurarono in scaletta al cospetto di veri capolavori ripescati dai Nirvana per l’occasione.
Facile quindi prevedere poi il successo (pur relativo) dell’album “Too High to Die” dei Meat Puppets che uscì quasi in concomitanza con la pubblicazione di quel live condiviso con i mostri sacri del grunge e ribattezzato poi “Mtv Unplugged in New York”.
Quel disco del 1994, uscito su major (come il precedente “Forbidden Places”), dopo gli anni di gavetta con l’indie label SST, fu come una sorta di risarcimento per i tanti anni spesi a proporre la loro musica, di matrice punk rock nell’attitudine, ma chiaramente ispirata nella sostanza dal country e dal folk, per non dire dal blues e dalla psichedelia.
Insomma, non era semplice definirli, ma di certo un’etichetta come quella del grunge poco si addiceva loro, se non per aver indirettamente ispirato Cobain.
Non hanno mai sbagliato un disco da allora, nel senso che non si possono certo definire brutti alcuni lavori come “Golden Lies” di inizio millennio, in cui alla batteria figurava ancora il batterista Derrick Bostrom, con i fratelli Kirkwood sin dagli esordi o il successivo “Rise to Your Knees” (con la batteria di Ted Marcus), per il quale intercorsero ben 7 anni, visto che nel frattempo si erano sciolti.
Ma insomma, ormai, le loro uscite discografiche venivano citate quasi per dovere di cronaca.
Questo nuovissimo “Dusty Notes”, giunto a 6 anni dal precedente “Rat Farm”, musicalmente non presenta chissà quali sorprese stilistiche – in fondo veramente chi se ne aspettava? – ma l’effetto curiosità era dovuto dal rientro in pista, a distanza di 20 anni, di Derrick Bostrom, e si sa che una line up al completo di band storiche genera sempre entusiasmo.
Mettendomi all’ascolto delle 10 tracce che compongono il loro nuovo album, il quattordicesimo della carriera, la prima cosa che mi viene da pensare è che suona tutto molto fresco e spontaneo.
Sarà appunto la suggestione nel saperli di nuovo dopo tanto tempo insieme in sala prove a registrare, o il fatto che Curt Kirkwood sia affiancato alla chitarra in vari pezzi dal figlio Elmo: insomma, si avverte un bel clima famigliare, un’atmosfera di certo molto serena.
A beneficiarne sono in primis le canzoni, che si fanno ascoltare con gran piacere, col risultato che dal brano d’apertura “Warranty” dal buon piglio country-pop a quello di chiusura, affidato al classicheggiante “Outflow”, dai toni più bucolici, non ci si annoia mai, non trovandovi mai segno di cedimenti o, peggio ancora, episodi con funzione di riempitivi.
Tocca comunque constatare che le migliori cartucce sono sparate all’inizio.
Oltre alla già citata “Warranty”, spiccano a seguire la melodia ariosa della successiva “Nine Pins” (a mio avviso la migliore dell’intera opera), la ballata crepuscolare “On” e una blueseggiante “Unfrozen Memory”, in cui viene facile riandare con la mente al periodo grunge.
Ma come detto anche gli altri episodi mostrano un gruppo affiatato come ai vecchi tempi, ben a fuoco e abilissimo a padroneggiare quella insolita miscela sonora che fa unire elementi diversi della tradizione musicale a stelle e strisce (e della loro terra d’origine, il Texas, in particolare, per quanto poi si siano formati in Arizona).
Ecco quindi tornare il rock più crudo in canzoni come “The Great Awakener”, la psichedelia in “Vampyr’s Winged Fantasy” e le suggestioni folk della title track; senza dimenticare le origini, con la riuscitissima cover del tradizionale “Sea of Heartbreak”, interpretata in passato anche dall’indimenticabile Johnny Cash.
I Meat Puppets ancora una volta quindi non tradiscono, prima di tutto sè stessi, ma anche e soprattutto i loro seguaci ascoltatori.
Seppur di nicchia, infatti, il loro nome è facilmente associabile a un mondo in qualche modo mitico, lontano nel tempo ma altresì rassicurante.
E’ vero, non mi aspettavo certo novità ma sapevo che non sarei rimasto deluso, perchè il nome dei fratelli Kirkwood è garanzia di musica di qualità , suonata con genuina passione, oggi come 35 anni fa.