Sapreste identificare la sensazione di interdizione che si prova davanti a qualcosa che arriva inaspettatamente? Ho cercato di dare un senso, una collocazione, ai miei pensieri dopo aver ascoltato l’ultimo album de la Cinematic Orchestra, “To Believe” che mi ha lasciata insperatamente spiazzata a chiedermi quale fosse questa sensazione e come metterla per iscritto. Non sorprenderà praticamente nessuno che questo ultimo lavoro dell’orchestra cinematica sia intriso di lussureggiante pop elettronico mescolato a sentimenti inquieti, così come non sorprende il modo in cui i fondatori Jason Swinscoe e Dominic Smith dal 2007 (anno del fortunatissimo “Ma Fleur”), abbiano costruito la via per arrivare al loro quarto disco in studio utilizzando gli stessi ingredienti presenti nei precedenti: voci romantiche, orchestrazione malinconica e songwriting avvincente.
Swinscoe ha descritto l’album come: “una contemplazione sulla fede nell’epoca della Brexit”, arrangiando liberamente ogni brano in chiave lievemente jazzistica intorno ai temi della fede e alle sue innumerevoli sfaccettature. L’album si apre con To Believe dove la voce nu-jazz dell’impareggiabile Moses Sumney, sembra adagiarsi sul sottofondo di chitarra acustica delicatamente strimpellata e sul pianoforte estremamente emotivo in continuo crescendo.
Il rapper inglese Roots Manuva dal suo canto si avvicina al microfono di “A Caged Bird / Imitations of Life” con il suo solito stile downtempo. Il churn dell’artista emana calore, il battito del cuore pulsa in beat-forward e a differenza di alcune delle altre tracce, qui l’arrangiamento fa leva in modo efficace sulle trame elettroniche che si combinano ad un raffinato songwriting, regalandoci un pezzo pacato e maturo.
Dal punto di vista strumentale, “Lessons” evoca i Radiohead ai tempi di “Kid A”, un brano intricato di nove minuti scanditi da un rullante soukous, un toccasana per l’anima che sprona l’immaginazione ad attivare le connessioni tra le esperienze passate e quelle che verranno, una sorta di finestra sui nostri sogni e le nostre speranze per il futuro.
“Wait for Now / Leave the World”, cerca di stabilire un continuum con la precedente estendendosi per oltre sette minuti cercando di offrire piacevoli arrangiamenti orchestrali intorno all’energica vocalist inglese Tawiah, non riuscendo però nell’intento di lasciare un segno particolarmente rilevante. Si riesce a percepire la volontà del gruppo di tornare agli approcci sperimentali a loro cari, dando più spazio agli arrangiamenti orientati al jazz. “The Workers of Art”, ad esempio, è un pezzo orchestrale di sei minuti, un tuffo nell’universo vasto delle colonne sonore, piacevole ma in gran parte da dimenticare.
L’album si chiude con il ritorno di Heidi Vogel in “A Promise”, che brilla come una sorpresa esplosa troppo presto, bellissima ma che lascia l’amaro in bocca perchè durata troppo poco e proprio mentre l’energia della voce aumenta avviene la rottura, la fine.
C’è un’eleganza nella musica dell’orchestra cinematica, una grazia che è maturata in modo graduale in questi undici anni, accrescendo l’attesa per il loro ritorno. “To Believe”, porta con sè un chiaro messaggio, quello di mantenere viva la speranza nonostante le fragilità presenti in un mondo caotico, così troppo spesso lontano da noi. Sebbene l’album pecchi di scarsa audacia, riesce ugualmente nell’intento di domandarci: “what do we believe in?”.