Il dono della semplicità  in un mondo così complesso non è da poco. Figurarsi aggiungerci la normalità , quella che ti permette di pubblicare album senza ansia, quando sono pronte le canzoni che lo compongono, senza seguire le logiche discografiche fino in fondo. Arrivato (e tutt’ora lo è) in sordina con “Last Smoke Before The Snowstorm”, un album che va ascoltato, senza sprecare troppi aggettivi, che poi si finisce a sembrare di parte. Segue, cinque anni dopo, “After the rain”, dopo un periodo difficile della sua vita. Nessuno dei due album è balzato alle cronache, ma c’era da aspettarselo, Benjamin Frencis Leftwich non è quell’artista che fa colpo all’ascoltatore-tipo da playlist di Spotify, anzi. Ma neanche alla critica e simili. Troppo quiet, forse, o, probabilmente, troppo ibrido: nè acustico, nè pop, nè cantautore al cento per cento. Colpisce grazie ai singoli e grazie al compilatore di playlist che lo inserisce non appena il mood si fa intorno la golden hour o la mattina passata al ritmo del dolce far niente, accompagnato dalla musica più tranquilla possibile, che non cada nel soporifero. Quindi: “Last Smoke Before The Snowstorm” e “After the rain” calzano a pennello. Tuttavia, solo alcuni singoli del primo album hanno superato largamente le decine di milioni di ascolti su Spotify; ancora non è stato assimilato del tutto, non è riuscito ad ottenere il passaggio >Visualizza artista >Segui. Ottimisticamente, può essere ricordato come quello di “Atlas Hands” o di “Shine” (la prima la si può ascoltare nella serie tv “Grey’s Anatomy”).

Come se non si fosse già  intuito, è un peccato. Perchè Benjamin Francis Leftwich è l’espressione irrazionale di tutto ciò che non è più alla moda e ciò lo porta ad essere naturale, il cugino che tutti vorremmo avere, o quello che porta la chitarra al falò e colpisce solo due o tre persone, mentre gli altri sono occupati a fare altro, ma quelle che lo ascoltano non distolgono l’attenzione nemmeno un secondo. Sarà  tutta questione di empatia, ma c’è sicuramente di più.

Insomma, dopo tre anni il nuovo album: “Gratitude”. Non come gli altri due, nemmeno lontanamente. Meno chitarre, più synth, meno atmosfera acustica, più Bon Iver del secondo album (“Big Fish” ricorda “Holocene”), meno quello del primo. Ma il suo stile rimane caratteristico. Lo si riconosce subito, la sua voce soffiata/graffiata è riconoscibile e lo rende – azzardo – unico in quello che fa.

“Sometimes” è tra i pochi brani che ricordano i lavori precedenti, e tra quelli più apprezzabili dell’album, insieme a “The Mess We Make” e “Rosheen”, l’opposto a quello che ci aveva abituato ad ascoltare: in questo caso voce effettata, drum machine in loop e chitarre praticamente assenti.

Segno di maturità  sicuramente, per i nostalgici un passo indietro, per lui un passo avanti verso sonorità  diverse, per il resto del mondo un album che, sfortunatamente, passerà  in secondo, terzo, quarto piano.

“Gratitude” è un termine coraggioso, che oggi non si usa molto. Forse questo ragazzo lo sa ed è riuscito a trasmetterlo nella sua musica: la gratitudine verso un qualcosa, qualsiasi cosa, senza cadere nel filosofico. La title track ha il suo perchè e forse il segno più evidente della maturità  del cantautore britannico.

Per capire Benjamin Francis Leftwich bisogna fermarsi un attimo, capire che non è tutto oro quello che luccica, e che ci si può emozionare anche senza postarlo da qualche parte. La normalità  -non- ci seppellirà . Purtroppo.