Achille Lauro con “1969” ha un grande e principale merito: aver azzerato le chiacchiere da talk show fatte nel post-Sanremo.
La sua è una prova istrionica, che risulta totalmente apprezzabile, perchè si basa su un eclettismo che ha portato Lauro a cambiare vesti e collocazione di genere in poco meno di 2-3 anni.
Il calderone targato “1969” è un universo immaginario in cui Achille Lauro riattualizza delle tendenze, tatuandosele addosso e facendole rivivere con un sound scostumato, ma assolutamente personale. Un viaggio in cui l’inferno diventa un luogo di riscatto personale, dove non c’è bisogno di umanità , ma solo della scoperta di una iconografia funzionale a creare un sound puntuale che culmina in pezzi come “Cadillac” o “1969”.
Riprende le icone, ormai ridotte allo stato di puri emblemi, anzi cadaveri, e ci costruisce la sua casa sicura, che alla fine si svela e diventa un passaggio per attraversare l’inferno personale di Achille Lauro.
Il disco non è pop, ma pop-art: il citazionismo di Achille Lauro è come un dipinto di Roy Lichtenstein: grazie alla sua immediatezza fumettistica, ma con un’ anima warholiana, capace di riassumere e cogliere l’anima delle icone storiche (James Dean, il 20 luglio 1969, Dorian Gray).
Ogni pezzo scorre ed è coerente con una narrativa che sostanzialmente fa planare, come marziani a Roma, una retromania di fondo che non stona mai con le intenzioni e il sound.
Disarmonico, per quanto riguarda la narrativa del disco, è il featuring con Coez, che non dice niente di nuovo, per nessuno dei due artisti. Il featuring, con Simon P, “Roma” è interessante invece perchè si lega alla capacità di raccontare una Capitale che, con le sue periferie, è marziana a se stessa. In un modo meno crudo e onirico, Achille Lauro compie lo stesso viaggio del protagonista dell’ultimo film di Lars Von Trier (“La Casa Di Jack”) e, anche in questo caso, per arrivare sul fondo della burella infernale, Lauro ha bisogno di mietere “vittime” e di fare i conti con una realtà fatta di quartieri disgraziati e un iconico, quanto punk, modo di scrivere e raccontare.
Il disco è un ottimo argine a tutto ciò che non è realmente funzionale e utile per raccontare un artista, non c’è polemica che tenga: “1969” è un disco atipico per il panorama nostrano, ma che in fin dei conti fa bene a tutti. L’esplosione di un nuovo pop è ormai limpida, le priorità non sono più legate alle delicatezze, ai racconti dell’amore e al manierismo esasperato.
Tutto sembra portarci ad un nuovo racconto dell’eccesso, ma snocciolare/studiare le icone e avere un’attitude punk, fino a quando sarà veramente sovversivo?