Seguendo i National da molti anni, non mi aspettavo di incontrare nel loro percorso artistico una tappa come quella rappresentata da “I Am Easy To Find”. L’operazione di decostruzione di questo lungo album (un’opera di più di un’ora spalmata su 16 brani), da parte di chi scrive, ha avuto davvero poco di “easy”. Potremmo dire che questo sia un meta-album, un racconto/dialogo che non vuole raccontare e vuole molto poter dialogare, con un nucleo spoglio, sincero, desideroso di mettersi a nudo, raccolto nelle pieghe svogliate tra le quali plana a volte meravigliosamente pigro a volte più intenso e corposo il baritono di Matt Berninger. Questo nucleo appare spesso attorniato dalle varie voci femminili (usate massicciamente, non più solo come coriste ma anche come co-protagoniste canore) che ne costituiscono il morbido, sinuoso contraltare.
Si alternano (o collaborano pure tra di loro) dietro il microfono muse e interlocutori come Sharon Van Etten, Lisa Hannigan, Mina Tindle, Kate Stables, Gail Ann Dorsey, fino ad arrivare al Brooklyn Youth Chorus.
La voce femminile dunque è, mettetevi l’anima in pace, protagonista indiscussa delle maggior parte delle tracce: una cosa stranissima da dire, da digerire, da poter concepire come ascoltatori e spettatori appassionati del frugale spettacolo di emozioni umane rappresentato nei brani dei brillanti autori di “Fake Empire” e “Terrible Love”. Le parti orchestrali, sempre dosate con mirabile gusto, diventano anch’esse ormai nervatura centrale delle composizioni, assieme ad un tocco elettronico felpato che ormai non è più solo un piacevole intruso ma che qui e là arricchisce di screziature policrome le eleganti architetture sonore con autorevolezza e senza più timidezza, alla fine convincendo.
Il progetto “I am Easy To Find” pare essersi generato a partire da uno sposalizio artistico col regista Mike Mills, autore del corto dello stesso titolo lanciato qualche giorno fa, immaginato non come un mero commento visivo alle tracce ma come una sorta di una, a sua volta, meta-visione vivente in universo parallelo rispetto a quello dell’album, stabilendo nuove prospettive, esplorando territori completamente diversi, poi tornando ad osservare da dietro un vetro fragilissimo l’intimismo avvolgente delle confessioni contenute proprio in quei brani da cui vuole staccarsi e che vuole inizialmente evitare per poi esaltarli e quindi lasciarsi andare ad essi.
Il risultato finale è dunque da una parte rassicurante (nel senso della qualità diremmo “oggettiva”), e insieme assolutamente depistante: la cifra della band potrebbe apparire (tra)sfigurata, indecisa in una dispersività sonora e una costante incertezza emotiva (tra le varie certezze adulte che si possono scorgere) che non è più, sembra, la splendida precarietà celebrata in brani come “Mistaken For Strangers”, “About Today” o “Baby We’ll Be Fine”, ma sa di un equilibrio sottilissimo sopra un abisso al contempo oscuro e fastidiosamente, bislaccamente policromo, vertiginoso e insieme piatto. Eppure, eppure”…cosa succede quando “You Had Your Soul With You” plana sulle note dolenti eppure luminose che avvolgono la voce super-malinconica di Gail Ann Dorsey, che esplode di assoluta vulnerabilità mantenendo una regale dignità . Cosa succede quando “Where is Her Head” comincia a pulsare di calda luce nel buio, cavalcando i colpi incessanti di Devendorf, in una invocazione disadorna e accorata che non conosce posa. Cosa succede quando “Oblivions” scivola trafelata nell’alveo madido e sfumato di una marzialità liquida, in un clima uggioso e dolorosamente riflessivo. Impossibile non riconoscere l’anima dei nostri, forse a volte troppo distratta dagli attori “esterni” che rubano la scena e dalle varie comparsate, eppure sempre scintillante nelle sue increspature irregolari, nonostante questo “pericoloso” tentativo corale e sperimentale di rinnovare la propria proposta artistica, che, come abbiamo fatto intendere, sfida spesso l’ascoltatore lasciandolo a volte interdetto e spaesato.
Ci vorrà un po’ di tempo per capire questo nuovo, se vogliamo inusuale lavoro dei National. Abbiamo tutto quello che rimane del 2019 (e se vogliamo anche tutti gli anni a venire che vogliamo o che ci verranno concessi, ovviamente) per farlo nostro oppure per ripudiarlo del tutto. Forse il segreto sta nel non porsi tante domande, e perdersi come a volte fanno le stesse emozioni dei brani, alla ricerca di una casa, che trovano casa, che in fondo non troveranno mai una casa, in una perenne, dolce inquietudine.
What are we going through? You and me
Every other house on the street’s burning
What are we going through?
Wait and see
Days of brutalism and hairpin turns
Credit Foto: Graham MacIndoe