Lambert: Tu lo ammiri.
Ash: Ammiro la sua purezza. Un superstite… Non offuscato da coscienza, rimorsi, o illusioni di moralità .

In questa definizione è racchiuso tutto il fascino di una creature che dopo quarant’anni ci affascina ancora (si, anche e sopratutto gli avventurosi Prometheus e Covenant). Lo Xenomorfo inventato dal genio distorto di  Hans Ruedi Giger è ancora qui e ci ammalia con le sue movenze e la sua crudeltà . “Alien” è il capostipite di tanti generi, il risultato di un’alchimia perfetta e irripetibile, “Alien” è un capolavoro che dopo quattro decenni ci fa saltare ancora dalla poltrona perchè ha puntato su un solo ingrediente, spesso oggi trascurato: la paura di quello che non puoi vedere. L’orrore che non ha un nome e non ha una forma, fino a quando ti si para davanti, l’orrore che ti fa sgranare gli occhi e palpitare fino allo spasimo.

La Nostromo, nave da carico scalcinata e sporca, come non dovrebbe essere una nave spaziale se pensiamo alla tradizione cinematografica (ma in questo Ridley Scott paga omaggio al Millenium Falcon di Lucas, altrettanto fatiscente e lurido) è un labirinto tetro, perfetto scenario di morte e antro per i nascondigli della bestia. Un cast ridotto all’osso dove non spicca da subito il personaggio di Ellen Ripley (una superba Sigourney Weaver) che invece prenderà  piede a metà  film mostrandosi eroina dai nervi saldi ed essere umano pronto ad attaccarsi al primordiale istinto di sopravvivenza. Lo stesso istinto che muove la creatura che non ha altro scopo se non quello di eliminare, in un perverso gioco al massacro, tutto l’equipaggio per saziare la sua fame e il suo istinto riproduttivo. Le intuizioni geniali si sprecano. L’alieno ha un design che ancora oggi non ha perso smalto, un misto di materia organica e metallo in un tripudio di gorgoglii, versi e sospiri rochi. Design che si deve al talento di Gyger che, in un mai velato gioco eroticamente diabolico, crea l’alieno che deve inseminare l’ospite per riprodursi, un amplesso quello del face hugger, che culmina con un parassita che irrompe dallo stomaco dell’ospitante per poi assumere le sembianze di un adulto; erotismo presente anche nelle varie cavità  dell’astronave aliena presente su LV-426, il pianeta misterioso, cavità  che ricordano quelle di un organo femminile. Erotismo infine, ma di una raffinatezza assoluta, quello che ci mostra una androgina e sensuale Weaver che in indumenti intimi si prepara a tornare a casa prima di scorgere lo xenomorfo nascosto, anzi mimetizzato (altra trovata fenomenale) tra i tubi della cabina di pilotaggio.

Un film che rinnova problematiche etiche che Scott riproporrà  tre anni dopo in Blade Runner e cioè: quanto può essere umano un essere sintetico? Può compenetrarsi in noi? Ash, apparentemente pare che lo faccia, salvo rivelarsi l’unico a difendere e preservare la creatura poichè è il solo a sapere dei progetti della compagnia commerciale che aveva mandato apposta la nave Nostromo su quel pianeta sconosciuto. E sembra quasi, a questo punto, più umano l’alieno che almeno uccide per istinto e non per bassi interessi.

La sequenza che tutti ricordano, ormai famosissima, è quella dello xenomorfo che schizza fuori dalla pancia di  Kane (John Hurt) unendo horror e spaltter insieme, ma a me piace ricordarne un’altra che poi racchiude tutta l’essenza di un capolavoro, quella della morte di Brett (Harry Dean Stanton) il macchinista, morte che noi non vediamo se non per pochi secondi e filtrata dai vitrei occhi del gatto Jones. Una scena spettacolare e devastante al tempo stesso. Osserviamo gli eventi nel loro precipitare con un senso di angoscia e di abbandono che non sono solo quelli dell’equipaggio, ma anche i nostri perchè Scott gioca sul senso di solitudine e di lontananza da qualsiasi cosa. La tecnologia non aiuta, spesso è di impaccio. MATER (in lingua originale MOTHER), il computer di bordo, ha una voce asettica, ripetitiva, quasi fastidiosa, così lontana dal tono rassicurante di Hal 9000. L’enorme scheletro mummificato dell’alieno (che trentacinque anni dopo Scott si premurerà  di identificare come quello di uno degli Ingegneri) è anch’esso mistero e simbolo di desolazione. Rivendendo oggi “Alien” la domanda che mi faccio è una: saprà  essere ancora così disturbante e violentemente geniale anche per le generazioni future? Non ho trovato ancora risposta.